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I santi di oggi 23 giugno:
nome San Lanfranco Beccari- titolo Vescovo di Pavia- nome di battesimo Lanfranco Beccari- nascita XII secolo, Pavia- Consacrato vescovo 1181 da Papa Alessandro III- morte 23 giugno 1198, Pavia- ricorrenza 23 giugno- Canonizzazione pre-canonizzazione- Santuario principale Chiesa di San Lanfranco a Pavia- Incarichi ricoperti Vescovo di Pavia- Nato appunto a Pavia nella nobile famiglia Beccari (o de Beccaria) nei primi decenni del sec. XII, Lanfranco fu consacrato Vescovo della sua città da Papa Alessandro III. La ricostruzione della sua biografia si deve in prima istanza al suo successore nella Cattedra episcopale, Bernardo che scrisse, poco dopo la sua morte, una "Vita Lanfranci": nella quale sono riportati, letteralmente, vita, morte e miracoli del futuro Santo. Da questo scritto e da numerosi altri contributi bibliografici emerge la figura carismatica di Lanfranco: amabile con i buoni, ma energico con i cattivi, pio, caritatevole e di vita esemplare. Difensore del potere della Chiesa in un periodo in cui si verificavano spesso controversie tra Papato e Autorità laiche, tra Guelfi e Ghibellini Egli difese con forza le proprietà e le prerogative ecclesiastiche e per questo motivo risultò presto inviso ai Consoli che governavano il Comune di Pavia, finendo per essere svillaneggiato e angariato da un certo numero di influenti cittadini pavesi. La situazione arrivò a una gravità tale che il Vescovo fu costretto a lasciare Pavia e a recarsi a Roma, ove trovò conforto e sostegno da parte del Papa. Ritornato a Pavia, ma ormai stanco di lottare, si ritirò nel monastero vallombrosano, allora ancora detto del S. Sepolcro (nei pressi della città ma non entro le sue mura), dove morì il 23 giugno del 1198, come appare da una lettera di Innocenzo III del 8 agosto di quell'anno. Al santo è intitolata la chiesa di San Lanfranco a Pavia, dove il vescovo è sepolto nell''Arca di San Lanfranco, opera quattrocentesca realizzata da Giovanni Antonio Amadeo. La fama di santità di Lanfranco si diffuse rapidamente attraverso il territorio pavese e dei dintorni, anche in funzione dei numerosi miracoli subito attribuiti al Vescovo. Leggendo il piacevole libro di Vittorio Lanzani "Cronache di Miracoli". Documenti del XIII secolo su Lanfranco Vescovo di Pavia" si può constatare, non solo che già il successore Bernardo fece registrare, con atto notarile, ben 40 casi riconosciuti come miracolosi, ma anche come alcuni di questi eventi abbiano davvero un carattere di grande originalità. Insieme alla registrazione di guarigioni o scampati pericoli si trovano infatti almeno tre testimonianze di prigionieri liberati in seguito ad eventi prodigiosi verificatisi dopo che questi avevano elevato invocazioni al Santo. Alcuni dei documenti notarili dell'epoca sono ancora reperibili negli archivi pavesi e riportano le dichiarazioni dei protagonisti e di numerosi testimoni dei fatti citati. I miracoli. Nel febbraio del 1202 il giovane Giovanni Boglario si trova detenuto per "carcerazione a lunga durata e coartazione con ceppi di ferro a mani e piedi. Nulla viene detto sul reato così punito, ma si registra il fatto che il prigioniero, "soffrendo molto per i ceppi di ferro", aveva invocato l'aiuto di S. Lanfranco: facendo voto di servizio perpetuo nel Convento del S. Sepolcro qualora fosse stato liberato dalle catene. Nella notte seguente il ragazzo sogna S. Lanfranco e al risveglio si trova libero dai ceppi, anche se questi giacciono a terra perfettamente chiusi. Le guardie, ovviamente, non credono subito al miracolo e sospettano un tentativo di evasione, ma i controlli alle cavigliere e alle manette di ferro confermano la loro regolare chiusura e l'assenza di segni di effrazione. Con l'intervento del Vescovo Bernardo, Giovanni viene quindi graziato e può continuare la sua vita al servizio della chiesa ora intitolata a S. Lanfranco. In data 1 giugno 1202 Uberto Verri riesce ad evadere dai sotterranei del carcere e fugge salendo verso la Torre di Porta di Palazzo, dove incontra però un manipolo di guardie che lo riacciuffano. Nella concitazione del momento, per quanto i carcerieri avessero promesso di non far del male al prigioniero, uno degli sgherri pugnala il malcapitato, che viene riportato in cella sanguinante e ormai in fin di vita. Nella sua disperazione Uberto invoca S. Lanfranco e la mattina dopo si ritrova risanato e con la ferita ormai cicatrizzata. Sono le stesse guardie, tra cui il responsabile dell'accoltellamento, a testimoniare l'evento miracoloso. Il fatto più eclatante si verifica comunque nell'ottobre del 1203. La carretta che porta i condannati a morte verso la forca, per l'impiccagione, trasporta due condannati: uno di essi è Alberto da Novara, giudicato colpevole di "molti gravi peccati e misfatti". Questi comincia presto a proclamare pubblicamente il suo pentimento per i reati commessi e ad invocare l'aiuto di San Lanfranco di fronte alla morte. Dopo la regolare impiccagione del primo condannato, si passa a sistemare la corda al collo di Alberto, che da parte sua continua a pregare. La botola si apre, l'impiccato resta appeso per il collo, ma la morte non sopraggiunge. Anzi, egli continua ad elevare preghiere ad alta voce. Al boia e ai suoi aiutanti non resta che liberare il condannato in modo da verificare la corda e controllarne l'efficienza. Per altre due volte si tenta di impiccare Alberto, persino cercando di tirare il malcapitato per le gambe in modo da facilitarne il soffocamento, niente da fare: l'impiccato mancato continua ad elevare preghiere e ringraziamenti a S. Lanfranco. Di fronte all'evento prodigioso non resta quindi alle Autorità civili che adeguarsi a concedere la grazia già data dal Potere Divino. A questi fatti si può associare un ultimo evento prodigioso dovuto a San Lanfranco. Questo è documentato nel bassorilievo scolpito sulla destra dell'Arca che conserva il corpo del Santo tumulato nella chiesa: "La giovane Gelasia, condannata con la falsa accusa di aver avvelenato il fratello, esce salva dal rogo". MARTIROLOGIO ROMANO. A Pavia, san Lanfranco, vescovo, che, uomo di pace, patì molto per favorire la riconciliazione e la concordia nella città.
nome San Giuseppe Cafasso- titolo Sacerdote- nascita 15 gennaio 1811, Castelnuovo d’Asti- morte 23 giugno 1860, Torino- ricorrenza 23 giugno- Beatificazione 1925- Canonizzazione 1947 da papa Pio XII- Santuario principale Santuario della Consolata- Patrono di carcerati e condannati a morte- Giuseppe Cafasso, amico di S. Giovanni Bosco, era nato a Castelnuovo d'Asti, un grosso borgo di campagna, terzo di quattro figli in una famiglia contadina di discrete condizioni; frequentò la scuola a Chieri, poco distante da Torino, ed entrò nel locale seminario, aperto da pochi anni per volere dell'arcivescovo del capoluogo piemontese. Si distinse come miglior studente del suo corso; fu ordinato prete nel 1833, con una dispensa speciale dell'autorità ecclesiastica, non avendo ancora raggiunto l'età canonica. Trasferitosi poi a Torino per poter continuare gli studi teologici, si sistemò in un alloggio modesto, ma non trovando sufficientemente adeguati i corsi del seminario diocesano e dell'università, si spostò al convitto ecclesiastico, istituto aperto da don Luigi Guala presso la chiesa di S. Francesco d'Assisi, sentendolo più confacente alle sue esigenze. Superò più che brillantemente l'esame diocesano d'ammissione e don Guala subito gli conferì un insegnamento. Quando don Guala chiese al suo assistente chi avrebbe dovuto scegliere come insegnante, questi rispose: «il piccoletto», alludendo a Giuseppe Cafasso che era piccolo di statura e rachitico. Egli compensava il suo miserevole e disprezzato aspetto fisico con una voce melodica e serena, che don Bosco definiva «la tranquillità indisturbata» e che affascinava chi l'ascoltava. Dimostrò di essere un insegnante nato: non si accontentava di insegnare, voleva educare; mirava non solo a «fornire nozioni» ma a illuminare e dirigere le menti degli studenti. Ben presto si sparse la fama che all'istituto S. Francesco a Torino ci fosse un nuovo insegnante assai bravo. Era ugualmente stimato come predicatore. Una volta disse a don Bosco: «Gesù Cristo, Sapienza infinita, usava parole ed espressioni accessibili a chi lo ascoltava, seguine l'esempio». Si serviva del dono di una predicazione semplice e colloquiale per incoraggiare la speranza e l'umile confidenza in Dio, in contrasto con la dottrina rigorista dei giansenisti, diffusasi nell'Italia settentrionale. Essi insegnavano che anche la più piccola caduta era un peccato grave, che poteva portare alla dannazione eterna. Più tardi il Cafasso scriverà: «Quando confessiamo, nostro Signore ci vuole pieni di pietà e d'amore; tutti quelli che vengono da noi debbono sentire la nostra paternità, senza alcun accenno alla loro personalità o a ciò che hanno commesso. Se respingiamo qualcuno o se un'anima si perde per colpa nostra ce ne sarà chiesto conto». Nel 1848, alla morte di don Guala, divenne direttore dell'istituto e della chiesa di S. Francesco, compito non facile dovendo prendersi cura di una sessantina di giovani preti di diverse diocesi, con un retroterra culturale e ambientale assai differente e con idee politiche opposte. Quell'anno fu particolarmente turbolento in tutta Europa: uno stato dopo l'altro sperimentava moti rivoluzionari e l'Italia conobbe queste vicissitudini in vista dell'unificazione nazionale, raggiunta nel 1861. Benché non mancassero detrattori, fuori e dentro l'ambiente ecclesiale, Giuseppe con il suo insegnamento, la sua fede luminosa e la sua cura per ognuno, riuscì a tener salda la barra dell'istituto in quei tempi travagliati. Il suo affetto e la sua attenzione per i preti giovani e inesperti, la sua insistenza sullo spirito mondano come peggior nemico, fecero sì che influenzasse tutto il clero piemontese, e non solo quello, perché il suo ministero raggiunse molte altre persone, suore e laici di ogni classe sociale. Il suo confessionale era molto frequentato: Giuseppe aveva il carisma di un'intuizione particolare nel rapporto con i penitenti. Quando la Compagnia di Gesù era stata soppressa, il santuario di S. Ignazio a Lanzo Torinese, sulle colline vicino alla capitale dei Savoia, era stato preso in carico dall'archidiocesi e don Guala era stato nominato amministratore. Alla morte di costui l'incarico passò al Cafasso, che continuò l'opera del suo predecessore, predicando ai pellegrini e dirigendo esercizi spirituali per clero e laici. Durante la sua amministrazione furono portati a termine i lavori, iniziati da don Guala, di ristrutturazione della foresteria e delle vie di accesso al santuario. Di tutte le sue attività quella che più colpi l'opinione pubblica fu il suo ministero presso i carcerati: nelle prigioni, dove gli uomini vivevano in condizioni degradanti e disumane, don Cafasso visitava i carcerati, facendo sentire loro affetto e portandoli alla confessione; le esecuzioni erano ancora pubbliche ed egli accompagnò al patibolo oltre sessanta condannati, tra cui famosi briganti e rivoluzionari, che chiamava «santi impiccati». Giovanni Bosco lo incontrò per la prima volta una domenica nell'autunno del 1827, quando era ancora un ragazzo vivace mentre Giuseppe era già sacerdote, e tornato a casa annunciò: «L'ho visto! Gli ho parlato!». «Chi hai visto?» gli chiese la madre. «Giuseppe Cafasso, e ti assicuro che è un santo.» Quattordici anni dopo don Bosco, nella chiesa di S. Francesco a Torino, celebrava la sua prima Messa, entrando poi a far parte dell'istituto, studiando sotto la direzione del Cafasso, condividendo molti dei suoi ideali. Fu egli a introdurlo nell'universo dei quartieri poveri e delle carceri di Torino, aiutandolo a scoprire la sua vocazione di apostolo dei giovani. Giovanni Cagliero, salesiano, scrive: «Noi amiamo e riveriamo il nostro caro padre e fondatore don Bosco, non di meno amiamo Giuseppe Cafasso, per oltre vent'anni maestro, consigliere e guida, nelle vicende spirituali e nelle iniziative, di don Bosco; oso dire che la bontà, i risultati, la saggezza di don Bosco sono la gloria di don Cafasso. Fu grazie a lui che don Bosco si stabilì a Torino, che i giovani si riunirono nel primo oratorio salesiano; l'obbedienza, l'amore e la saggezza che ha insegnato hanno portato frutti in migliaia di giovani in Europa, Asia e Africa, ragazzi che oggi sono ben preparati per la vita nella Chiesa di Dio e nella società degli uomini». L'insegnamento di don Cafasso influenzò anche altri, oltre a don Bosco: la marchesa Giulietta Falletti di Barolo, che fondò una dozzina di istituti di carità; don Giovanni Cocchi, fondatore di un istituto per artigiani e altre opere di carità a Torino; padre Domenico Sartoris, il fondatore delle Figlie di S. Chiara; il 13. Clemente Marchisio (20 set.), fondatore delle Figlie di S. Giuseppe, e molti altri fondatori di istituzioni caritative. Giuseppe Cafasso morì il 23 giugno 1860; don Bosco fece l'elogio al funerale e in seguito ne scrisse la biografia. Fu canonizzato da papa Pio XII nel 1947. MARTIROLOGIO ROMANO. A Torino, san Giuseppe Cafasso, sacerdote, che si dedicò alla formazione spirituale e culturale dei futuri sacerdoti e a riconciliare a Dio i poveri carcerati e i condannati a morte.
nome Sant'Eteldreda di Ely- titolo Regina di Northumbria- nascita 636 circa, Exning,Inghilterra- morte 679, Ely, Inghilterra- ricorrenza 23 giugno- Attributi colonna, due daine e corona- Le tante chiese dedicate a Etcldrcda (Aethelthryth o, più popolarmente, Audrey) testimoniano come fosse una delle sante sassoni più conosciute. Era figlia di Anna, re degli angli orientali, e sorella di altre tre sante: Sexburga (6 lug.), Etelburga (7 lug.) e Withburga (8 lug.): la prima, dopo la morte del marito re del Kent, scelse la vita religiosa; Eteidreda si fece suora, mentre Withburga optò per una vita eremitica. Eteidreda si era sposata due volte, ma si dice che fosse rimasta vergine. Da ragazza aveva assecondato il desiderio dei genitori ed era andata sposa a Tonbert, principe nella contea di Fen, che probabilmente era già malato perché morì «poco tempo dopo averla sposata», come scrive Beda. Allora ella si ritirò nell'isola di Ely, regalo di nozze di Tonbert, circondata da acquitrini e terreno paludoso, conducendo vita solitaria e di preghiera per cinque anni. I suoi famigliari fecero pressione perché si sposasse di nuovo; il prescelto era Egfrido, figlio di re Oswy, che aveva solo quindici anni. Da principio il giovane sposo accettava di buon grado di vivere in continenza, ma diventando adulto e re, voleva che ella si comportasse con lui da moglie, ma Eteidreda disse che aveva fatto voto di verginità a Dio. I due coniugi fecero allora ricorso a Wilfrid, vescovo di York (12 ott.): il re tentò anche di corrompere il vescovo, che però decise che si dovesse concedere a Eteldreda di entrare in convento. Ella si recò a Coldingham, dove era badessa sua zia S. Ebba (25 ago.), e lì ricevette il velo dal vescovo Wilfrid. Egfrido dovette risentirsi molto per quella decisione, tant'è vero che incoraggiò Teodoro di Canterbury (19 set.) a dividere la grande diocesi del nord e a bandire Wilfrid, che per un certo tempo fu costretto all'esilio. Dopo un anno trascorso a Coldingham Eteldreda si trasferì a Ely, dove il vescovo Wilfrid la nominò badessa di due monasteri, incarico che resse fino alla morte. Adottò la Regula benedettina come base della vita monastica, e si diede a condurre una vita molto austera: mangiava una sola volta al giorno, a eccezione di quando era malata o nelle grandi solennità; indossava abiti di lana rozza dei poveri piuttosto che quelli di lino pregiato che le monache provenienti dalla nobiltà continuavano a portare anche in convento; dopo la recita del Mattutino a mezzanotte, spesso si fermava in chiesa a pregare fino al sorgere del sole. Morì nel 679 e secondo le disposizioni da lei lasciate fu sepolta dentro una semplice cassa di legno. Durante il Medio Evo la tomba di S. Eteldreda divenne un grande centro di devozione. Le sue reliquie sono scomparse da molto tempo benché si possa ancor oggi ammirare il suo sepolcro nella cattedrale di Ely, dove immagini della sua vita sono scolpite attorno alla Torre del Faro. Tawdry, una distorsione del nome Audrey, è il nome attribuito alle collane di poco valore e agli altri oggetti vistosi in vendita alla fiera annuale di grande richiamo, nel giorno della sua festa. MARTIROLOGIO ROMANO. Nel monastero di Ely nell’Inghilterra orientale, santa Edeltrude, badessa: figlia del re e lei stessa regina di Northumbria, rifiutate per due volte le nozze, ricevette dal santo presule Vilfrido il velo monacale nel monastero da lei stessa fondato e che, divenuta madre di moltissime vergini, resse con il suo esempio e con i suoi consigli.
nome Beata Maria di Oignies- titolo Fondatrice delle Beghine- nascita 1177 circa, Nivelles, Belgio- morte 1213, Oignies, Francia- ricorrenza 23 giugno- Tra il XII e il XIII secolo nei Paesi Bassi un buon numero di sante donne anticiparono con la loro condotta di vita la semplicità e l'austerità del movimento francescano: Maria di Oignies fu una di queste. Il futuro cardinale Giacomo de Vitry, suo amico, discepolo e forse anche confessore, ha scritto una biografia con l'elogio delle sue virtù, avvertendo però il lettore che le sue pratiche spirituali erano troppo estreme. Proveniva da una famiglia facoltosa di Nivelles nel Brabante, e da bambina era così seria che non si univa mai agli altri suoi coetanei nei giochi; non permetteva che le facessero i riccioli nei capelli o che le facessero indossare abiti alla moda. Annunziò ai suoi genitori che desiderava abbracciare la vita reli-giosa. Essi però erano infastiditi da questo suo comportamento diverso dalle altre fanciulle, la irrisero e quando ebbe quattordici anni la dettero in sposa a un giovane che godeva di ottima posizione. Maria però era così determinata che convinse il suo sposo a condividere i suoi ideali e a vivere in castità, trasformando la loro casa in un ospizio per lebbrosi. I due giovani sposi curavano gli ammalati personalmente, talvolta vegliandoli tutta la notte, e si misero a distribuire i loro beni in elemosina in modo così indiscriminato da mettere in allarme il parentado. Dormivano su assi ed erano oggetto di derisione e scher-no. Maria faceva vita di grande austerità indossando una rozza corda attorno ai fianchi, digiunando e negandosi il sonno per assoggettare il proprio corpo. Durante un inverno molto rigido trascorse tutte le notti in chiesa dalla festa di S. Martino a Pasqua, sdraiandosi per terra senza coprirsi con mantelli o coperte. Maria possedeva quello che è chiamato «il dono delle lacrime»: spesso, infatti, le sgorgavano lacrime quando pregava o meditava sui divini misteri. Se il fenomeno potrebbe essere spiegato come reazione fisica alla tensione prodotta da una vita così fuori dalla norma, il suo biografo, e molti altri, considerarono le lacrime come un'autentica grazia spirituale (nel Messale Romano c'è una raccolta di collette pro petitione lacrymarurn, per chiedere le lacrime). In un frammento del suo diario, che ci è pervenuto, S. Ignazio di Loyola (31 lug.) considera un tempo di desolazione i giorni nei quali non versava lacrime mentre assisteva alla Messa, poiché, dice, Dio nascondeva il suo volto. Maria piangeva così copiosamente che, come scrive il de Vitry, «le lacrime da lei versate segnavano il suo passaggio sul pavimento della chiesa». Guardando il crocifisso, o parlando della passione di Cristo, oppure sentendone parlare, spesso sveniva; aveva una devozione particolare per la Presenza reale, trascorrendo 'molte ore in chiesa in adorazione del SS. Sacramento. Mentre la fama di Maria di Oignies attraeva folle di visitatori che si rivolgevano a lei per consigli e ispirazione spirituale, ella sentì, a pochi anni dalla morte, il bisogno di una vita solitaria e, con il consenso del marito, si trasferì in una cella presso il monastero agostiniano che sorgeva nei pressi di Oignies, dove trascorreva le giornate in preghiera e meditazione. In questi cinque anni di vita da reclusa il de Vitry la visitò spesso e in seguito la definì «la mia madre spirituale». Maria pregava mol-tissimo per lui e lo aiutava spiritualmente. Il rapporto spirituale con il futuro cardinale era, per lei, una ri-sposta alle sue preghiere: poiché in quanto donna non poteva avere un insegnamento pubblico per i fedeli e condurli a Dio, così egli fungeva in sua vece ed era il suo speciale "predicatore"; de Vitry si sentì molto onorato di questo titolo, rimanendole sempre fedele e scrivendone subito dopo la morte, avvenuta all'età di trentotto anni, una Vita (a quel tempo egli non era ancora cardinale). Maria influenzò anche la fondazione, nel 1211, dei Canonici Re-golari della Santa Croce (crocigeri) da parte di Teodoro di Celles a Clair-Lieu, vicino a I Iuy. MARTIROLOGIO ROMANO. A Oignies sempre nell’Hainault, nel territorio dell’odierna Francia, beata Maria, che, ricca di doni mistici, con il consenso del marito, visse reclusa in una cella e poi fondò e regolamentò l’Istituto detto delle Beghine.