@Vitupero
I santi di oggi 12 marzo:
nome San Massimiliano di Tebessa- titolo Martire- nascita 274, Tebessa- morte 12 marzo 295, Tebessa- ricorrenza 12 marzo- Canonizzazione pre canonizzazione- Patrono di Obiettori di coscienza- Fu un obiettore di coscienza, ma di coscienza luminosamente cristiana, sempre desta e operante. Giovane casto, rettissimo, mite, caritatevole, egli era figlio del veterano Fabio Vittorio e come tale, a vent'anni avrebbe dovuto indossare le armi, portando al collo la medaglia dell'imperatore. Sono rimasti gli atti del processo, avvenuto in Africa, a Tabessa, al tempo del Proconsole Dione Cassio. «Sono soldato di Cristo - disse Massimiliano -e mi rifiuto di portare al collo la medaglia del-l'Imperatore». Il Proconsole lo avvertì: «Poiché ti rifiuti di servire l'Imperatore con le armi, incorrerai nella sentenza di morte». Massimiliano non protestò, non inveì contro il Proconsole, non maledì l'Imperatore. Disse sommessamente: «Sia resa grazia a Dio». Venne condotto al supplizio, e per la via andava dicendo: «Fratelli amati, obbedite a Dio per meritare una corona come la mia». Rivolto al padre lo pregò: «Dona al milite che mi colpirà il vestito nuovo che mi avevi preparato. E noi, tutti e due, senza rancore, glorifichiamo il Signore». Fu così decapitato. Una matrona, di nome Pompeiana, chiese ed ottenne il corpo del giovane martire. Sopra una lettiga lo trasportò a Cartagine, dove venne seppellito. Tre giorni dopo Pompeiana moriva e di lì a poco anche il padre di Massimiliano, pieno di consolazione, lasciò la terra per il cielo. Massimiliano si sentiva cittadino non del mondo, ma del cielo. Obbediva a Dio con completa adesione d'anima e di spirito. La sua vera patria non era quella governata dall'Imperatore, al quale non chiedeva nulla, e nulla doveva, né ricchezza, né potenza, né onori. Era un cristiano puro, che poteva donare la propria veste al soldato che l'uccideva, senza il minimo rancore e senza la più piccola incertezza, perché la morte del corpo significava per lui la vita eterna dell'anima. MARTIROLOGIO ROMANO. A Tebessa in Numidia, nell’odierna Algeria, san Massimiliano, martire, che, figlio del veterano Vittore e anch’egli arruolato nella milizia, rispose al proconsole Dione che a un fedele cristiano non era lecito servire nell’esercito e, rifiutatosi di prestare il giuramento militare, fu giustiziato con la spada.
nome San Luigi Orione- titolo Sacerdote e fondatore- nome di battesimo Luigi Orione- nascita 23 giugno 1872, Pontecurone- morte 12 marzo 1940, Sanremo- ricorrenza 12 marzo- Beatificazione 26 ottobre 1980 da papa Giovanni Paolo II- Canonizzazione 16 maggio 2004 da papa Giovanni Paolo II- Santuario principale Santuario di Nostra Signora della Guardia- «Che cosa può venire di buono da Pontecurone?». Con questa frase, tutt'altro che incoraggiante, un frate francescano del convento di Voghera accoglieva il piccolo Luigi Orione che aveva chiesto di entrarvi per farsi frate. Pontecurone, dove egli nacque il 23 giugno 1872, era un oscuro paese della provincia alessandrina. Il padre faceva lo stradino e politicamente stava dalla parte di chi, pur di cambiare le cose che andavano davvero male, era disposto anche ad andare per le spicce. Sua madre, invece, era tutta casa e chiesa.<br /> D'estate, al tempo della mietitura, la mamma andava a spigolare trascinandosi dietro il piccolo Luigi. «Il pane per i poveri è sacro -gli diceva- e neppure una briciola deve andare perduta». E si inchinava lei stessa a raccoglierla. Quel gesto, di raccogliere e portare alla bocca ogni pezzo di pane, divenne anche per Luigi un'abitudine che un giorno gli costò cara. I compagni di collegio, avendo notato il suo innocente vezzo, buttavano pezzi di pane che poi con sottile perfidia si affrettavano a calpestare. E quando Luigi, obbedendo al suo istinto, si chinava a raccogliere le briciole, era un coro di risate. Per tutta la vita, in verità, non farà che curvarsi per sollevare gli emarginati, i disgraziati abbandonati a se stessi da una società gretta e meschina. A Voghera Luigi non stette per molto: una broncopolmonite lo costrinse a lasciare il convento. Il papà lo prese allora con sé a lavorare lungo le strade: un buon noviziato, che gli fece conoscere il mondo operaio, un mondo difficile, di gente sfruttata e arrabbiata, un po' anticlericale ma non lontano da Cristo. Poi Luigi conobbe don Bosco che lo prese con sé a Torino e lo coinvolse nelle sue iniziative a favore dei ragazzini che la durezza della vita aveva ridotto a vivere nei marciapiedi delle città. Ma alla vigilia del noviziato, quando don Bosco pensava ormai di avere un confratello in più, inspiegabilmente Luigi Orione lasciava Torino e chiedeva di essere accolto nel seminario diocesano di Tortona. In seminario Orione non fu mai un chierico come gli altri. L'ansia per i ragazzi male in arnese, che don Bosco gli aveva comunicato, gli fece fare cose che di solito i chierici non fanno. Un'estate, quando i chierici tornavano in famiglie, Luigi chiese di restare. E poiché il seminario chiudeva, il rettore gli mise a disposizione una stanzetta, un bugigattolo nel soffitto della cattedrale, che al caldo estivo era tutt'altro che un luogo di delizie. Un giorno la porta della sua stanzetta si aprì per accogliere un ragazzino cacciato dalla scuola di catechismo perché turbolento. Qualche giorno dopo una frotta di marmocchi invadeva la soffitta del duomo, contenti di passare qualche ora con quel chierico un po' matto che si faceva in quattro per loro. Un po' meno contenti furono i piissimi canonici, disturbati nel loro devoto salmodiare dai rumori «sospetti» provenienti dalla soffitta.<br /> Disturbare la preghiera dei canonici fu considerato quasi un delitto e Orione dovette sloggiare, accompagnato dalla fama di soggetto poco raccomandabile. Ma non tutti furono d'accordo con quella sbrigativa definizione, non il vescovo, monsignor Igino Bandi, che, apprezzando l'iniziativa del chierico Orione, gli mise a disposizione il proprio giardino, presto trasformato in oratorio. Ma anche lì la storia durò poco. Qualcuno ravvisò nel gruppetto di ragazzini un covo di papalini antipatriottici e sovversivi. E si diede da fare perché il patronato venisse chiuso.<br /> E l'oratorio chiuse i battenti. Ma Orione si inventò qualche altra cosa: aprì un piccolo collegio per seminaristi poveri, con la benedizione del vescovo. L'iniziativa per un po' funzionò, ma poi alcuni malintenzionati misero in giro la voce che Orione fosse indebitato fino al collo. Il vescovo fu costretto a prendere delle precauzioni per non trovarsi nei guai. E Orione si trovò da solo. Ma non mollò l'impresa. «Aiutati ché il ciel t'aiuta», dice la saggezza popolare e lui, dandosi da fare, trovò i soldi per pagare l'affitto del locale che ospitava il collegio, per mettere tutti a tacere. La Piccola opera della divina provvidenza, una delle sue iniziative più incisive, nascerà da quel collegio, della provvidenza, è il caso di dire. Aveva allora solo ventuno anni. Ed era ancora chierico. Sacerdote lo divenne due anni dopo, nel 1895. Ancora chierico ne aveva combinata un'altra delle sue. Il patriarca di Venezia Giuseppe Sarto, il futuro Pio X aveva invitato nella città della Serenissima, per dirigere il coro della basilica, il chierico Lorenzo Perosi, compagno di corso di Orione e promettente musicista. Notizie che giungevano dalla città di san Marco avevano inquietato il severissimo Perosi, il quale un giorno andò a confidare a Orione le sue angustie. Secondo lui, il cardinale Sarto stava «viziando» suo figlio: lo invitava a pranzo, giocava con lui ai tarocchi, gli offriva sigari... Orione, contagiato dal sacro furore di Perosi, prese carta e penna e inviò una lettera di rimproveri al cardinale. Se ne pentì subito, ma ormai la frittata era fatta. Il patriarca Sarto, letta la lettera dell'audace chierico, si vendicò, ma a suo modo: inviandogli un pezzo di stoffa per la talare che avrebbe indossato il giorno della prima messa. Quando, anni dopo, don Orione sarà ricevuto in udienza, Pio X, mostrandogli la lettera che aveva posto nel breviario come segnalibro, gli dirà: «Certi rimproveri fanno bene ai patriarchi». Intanto la Piccola casa della divina provvidenza prendeva piede. A don Orione si era aggregato un altro sacerdote, don Sterpi, suo futuro successore, e con lui tanti giovani che volevano essere della compagnia. E l'iniziativa cresceva. Don Orione era un vulcano. Una ne faceva e cento ne pensava. La Casa della provvidenza divenne più di una e a esse si affiancarono presto asili, scuole professionali, centri giovanili, ospedali... In Italia e fuori Italia, in Brasile e Argentina. Troppo successo, per non suscitare nei soliti invidiosi qualche sospetto: dove trovava i soldi quel pasticcione di prete? II suo castello era solido o poggiava su un mare di debiti? Perché non era mai in casa ma sempre in giro per il mondo?... Sospetti e altro ancora finirono raccolti in un bel dossier che monsignor Bandi dovette leggersi. E non ne fu contento. Tanto che, chiamato don Orione, gli disse con tono che non ammetteva repliche: «La Piccola opera della divina provvidenza deve essere chiusa». Il monsignore si aspettava chissà quali reazioni. Don Orione rispose solo: «Obbedisco». Sollecitato poi dal vescovo, sconcertato dalla secca risposta, a esplicitare la sua opinione, egli si mise in ginocchio dicendo: «Eccellenza, domani lei non può celebrare la messa perché ha compiuto un'ingiustizia troppo grossa».<br /> Tre mesi dopo l'Opera di don Orione otteneva dal vescovo l'approvazione ufficiale, insieme alla raccomandazione di dare basi solide all'istituzione, perché non finisse travolta dai debiti. Don Orione promise. Ma intanto chiedeva di poter aprire una nuova casa a Borgonovo, nel piacentino, per ospitarvi i più poveri tra i poveri. E il vescovo glielo concesse perché, in fondo, aveva fiducia in quel suo prete un po' pasticcione, è vero, ma mimato da una grande passione che aveva nell'amore di Dio e iel prossimo la sua origine. Nel 1908 Messina veniva rasa al suolo dal terremoto. Don Orione fu tra i primi a portare soccorso in nome del papa e della carità cristiana. E mentre gli anticlericali lo accusavano di essere una spia del Vaticano e chiedevano che fossero incamerati tutti i beni ecclesiastici per soccorrere i terremotati, don Orione scriveva mirabili pagine di Vangelo vivo, «incamerando» duemila orfanelli nei suoi collegi. Quando Pio X lo nominò vicario generale della diocesi disastrata, un canonico gli offrì un materasso e una stanza scampata alla devastazione. Ma lui cedette tutto a una famiglia senza casa e andò a dormire in un vagone ferroviario. Erano tempi duri, di miseria, di fame e di lotte. Gli operai e i poveri lo ebbero sempre dalla loro parte. Tanto che i socialisti di Alessandria lo chiamavano «il nostro prete». In una predica incitò provocatoriamente i poveri a rubare: «Non nella terra dei poveri specificò, ma in quella dei ricchi. Andate nella proprietà di Pedenovi (suo amico, che sapeva presente in chiesa). Però non portategli via la carretta ma solo il canestro». Anche il terribile terremoto della Marsica (1915) lo vide prodigarsi in prima persona e con gesti di carità al limite della legalità. Per portare in salvo dei bambini, ad esempio, requisì l'automobile del re, il quale, presente alla scena, non osò opporsi. Tra i bambini che un giorno accompagnò alla stazione per portarli in un suo collegio in Liguria, c'era anche un ragazzetto che nel terremoto aveva perso tutta la sua famiglia, Ignazio Silone. Intervistato in seguito su quali personaggi l'avessero più colpito, il celebre scrittore disse: «Don Orione e Trotskij: il primo non era il cristiano della domenica mattina; il secondo non era il rivoluzionario del sabato sera». Mentre imperversava la prima grande guerra con le sue drammatiche vicende, don Orione diede le ultime rifiniture alla Piccola opera, che articolò in cinque rami: i piccoli figli della divina provvidenza, le piccole suore missionarie della carità, gli eremiti di sant'Alberto, le figlie della Madonna della Guardia o sacramentane e i fratelli laici coadiutori. Le sacramentine e gli eremiti, due comunità contemplative, che accolgono anche i ciechi di solito rifiutati dagli istituti religiosi perché non idonei, sono il fiore all'occhiello di don Orione, e il motore di tutte le sue altre attività. E nell'eremo di Sant'Alberto don Orione si rifugiava per disintossicarsi dai veleni delle critiche che da più parti gli venivano mosse: cosa normale per chi realizza qualcosa di importante. Ebbe però anche attestazioni di stima da importanti personaggi della chiesa, come monsignor Roncalli (Giovanni XXIII). Il cardinale Pacelli (futuro Pio XII), mentre si recava in nave al Congresso eucaristico di Buenos Aires come legato pontificio, a chi gli chiedeva la benedizione rispondeva, indicando don Orione, compagno di viaggio: «Andate da lui: è un santo». Ai primi di marzo del 1940 don Orione si ammalò gravemente. Aveva chiesto di essere portato a Borgonovo (Piacenza) in quella che considerava la più povera delle sue case. Invece lo trasferirono nella sede di Sanremo, sperando che il buon clima fosse favorevole alla sua salute. Invece il 12 marzo moriva. Scrivendo un giorno all'amico padre Stefano Ignudi, un francescano conventuale di grande cultura, don Orione aveva chiesto: «Ci sarà il ballo in Paradiso?». Non era una irriverenza, ma un suo modo per sottolineare che la chiesa deve essere il luogo della festa e non dei funerali, della Pasqua e non solo del venerdì santo; una chiesa dell'osare e non solo dell'attendere in pantofole; con un briciolo di pazzia... Papa Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato il 26 ottobre 1980 e proclamato Santo dallo stesso Papa il 16 maggio 2004.<br /> MARTIROLOGIO ROMANO. A Sanremo in Liguria, san Luigi Orione, sacerdote, fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza per il bene dei giovani e di tutti gli emarginati.
nome Santa Fina di San Gimignano- titolo Vergine- nascita 1238, San Gimignano- morte 12 marzo 1253, San Gimignano- ricorrenza 12 marzo-Santuario principale Cappella di Santa Fina all'interno del Duomo di San Gimignano- Attributi mazzolino di viole- Patrona di San Gimignano- San Gimignano non è soltanto la città delle belle torri, ma anche quella dei molti Santi e, soprattutto, di Santa Fina. Si chiamava forse Serafina, ed era della fami-glia dei Ciardi, nobili che forse avevano anch'essi, alta sopra il palazzo gentilizio, una su-perba torre di pietra, tra le tante che facevano corona alla torre del Palazzo Comunale. Ma nella prima metà del Duecento, quando Fina visse, la famiglia, decaduta, stava impoverendosi, e la gioventù della fanciulla fu semplice e modesta. Nella severa dimora paterna, visse come in un monastero: sottoposta, obbediente, devota. E intanto si faceva una giovinetta snella ed elegante, con i capelli biondi raccolti attorno all'ovale liscio e perfetto del volto, come l'hanno dipinta Benozzo Gozzoli e Domenico del Ghirlandaio. E un giorno - narra la leggenda - mentre attingeva acqua ad una fonte, o forse alla Cisterna che ancora si può vedere nella piazza che porta questo nome, le si avvicinò un giovane ammiratore. Invece di esprimere a parole i suoi sentimenti verso la fanciulla, con tacito gesto egli le offrì un frutto di fuoco: una «melarancia», un dono, a quei tempi, rarissimo e costoso, proveniente da lontane terre oltremare. Fina, confusa, tornata a casa mostrò la preziosa arancia alla madre. Questa, temendo per la casta fanciulla le insidie e le lusinghe del mondo, che il frutto color di fuoco pareva simboleggiare, le rimproverò l'accaduto, esortandola a non accettare né doni né parole da ammiratori o corteggiatori. Questo fallo, commesso con leggerezza ma non certo con malizia, addolorò la sensibile fanciulla. Ella pianse e si mortificò, e da allora volle punire il suo corpo troppo attraente e delicato. Chiese, con le preghiere, una punizione. Infatti, nel mese di maggio, venne colpita da una strana infermità, che ricoprì di dolorose ulcerazioni il suo corpo. Era la punizione da lei invocata. Ma Fina volle che il suo sacrificio fosse ancor più completo. Si fece portare una tavola di quercia e su quella si giacque, immobile, nel segreto della sua cameretta. «Aveva dieci anni Santa Fina- ha scritto Curzio Malaparte in una delle sue ultime opere - quando si stese sulla rozza tavola, in quella sua stanzetta che pare una spelonca, per farvi penitenza, e di lì non si mosse più, e stette in quel duro letto cinque anni distesa, fino al quindicesimo di sua età». In quei cinque anni di immobilità, i dolori furono i suoi favori e le sue gioie. Morta la madre, venne assistita da una nutrice. Ma la bambina bisognosa di tutto era in realtà colei che assisteva e proteggeva tutta la sua città: spirituale reggitrice da viva, come da morta ne sarà Patrona. Devota di San Gregorio Magno, Santa Fina, dalla sua tavola di quercia, rivolgeva soprattutto a lui le sue preghiere e raccomandazioni. E dopo cinque anni, il Santo Pontefice le apparve, per annunziarle che avrebbe lasciato questo mondo e i suoi dolcissimi dolori proprio nel giorno della sua festa, cioè il 12 marzo. Durante le esequie, la nutrice, paralizzata ad una mano, riacquistò l'uso dell'arto al solo sfiorare il corpo consunto e appiattito della Santa giovinetta; mentre un chierichetto cieco, nel baciarle i piedini cerei, riacquistò prodigiosamente la vista. Intanto, nelle strette viuzze cittadine, il vento spingeva a folate un insistente profumo di violette. Alzando gli occhi, la gente vide che sulle torri pietrigne di San Gimignano, sotto il nero volo dei corvi, erano improvvisamente fiorite le viole: le viole di Santa Fina, che ancora fioriscono, tutti gli anni, di marzo, sulle antiche pietre, e spandono sulla città severa e turrita il delicato profumo della santità. MARTIROLOGIO ROMANO. Nella città di San Gimignano in Toscana, beata Fina, vergine, che fin dalla tenera età sopportò con invitta pazienza una lunga e grave infermità confidando solo in Dio.
nome Sant'Innocenzo I- titolo 40º papa della Chiesa cattolica- nascita IV secolo, Albano, Roma- Elezione 21 dicembre 401- Fine pontificato 12 marzo 417 (15 anni e 81 giorni)- morte 12 marzo 417, Roma- ricorrenza 12 marzo, 28 luglio- Santuario principale<br /> Basilica dei Santi Silvestro e Martino ai Monti- Innocenzo era originario di Albano (Roma), ma a parte questa informazione si conosce ben poco della prima parte della sua vita. Succedette a S. Anastasio I nel 401 e, durante i sedici anni del suo pontificato, si occupò attivamente degli affari della Chiesa. La sua pronta risposta ai problemi dell'epoca denota un carattere energico, vigoroso e capace. Innocenzo era consapevole della posizione privilegiata di Roma rispetto alle altre sedi della Chiesa, e fu pronto a confermare il papato come arbitro universale, soprattutto riguardo ai problemi dottrinali. Scriveva a S. Vittricio (7 ago.), vescovo di Rouen (Francia) che le "cause più gravi" dovevano essere rimesse a Roma e similmente fece con i presuli spagnoli. Spinse anche numerosi vescovi a controllare che il clero osservasse il celibato secondo l'esempio romano. Innocenzo si schierò a fianco di Giovanni Crisostomo (13 set.) che era stato ingiustamente cacciato dalla sede di Costantinopoli dal sinodo "della quercia" nel 403, rifiutando di riconoscere il suo successore illegittimo e tentando di convincere l'imperatore Arcadio a reinsediarlo; inoltre dopo la morte di Giovanni fece pressioni sul patriarca perché fosse ricordato nei dittici in segno di comunione. I vescovi africani, che avevano condannato la dottrina di Pelagio ai concili di Cartagine e Milevi del 416, scrissero al papa per avere conferma delle loro decisioni. Il papa diede la sua approvazione, aggiungendo che «in tutte le questioni di fede i vescovi del mondo dovrebbero fare riferimento a S. Pietro come voi». La conferma papale fu annunciata da S. Agostino (28 ago.) ai suoi fedeli a Ippona: «Due concili hanno sottoposto alla Santa Sede il problema, la risposta è arrivata: la questione è conclusa». Questa è l'origine del noto detto: Roma locuta, causa soluta est. In seguito Pelagio scrisse e inviò a Innocenzo una professione di fede che, però, arrivò solo dopo la morte del pontefice. Durante il suo pontificato, la notte tra l'anno 406 e 407, i barbari oltrepassarono il fiume Reno. Quattro mesi dopo Roma fu conquistata e saccheggiata dai goti guidati da Alarico. Innocenzo si trovava a Ravenna, per convincere l'imperatore Onorio a patteggiare la pace con gli invasori. Morì il 12 marzo 417. MARTIROLOGIO ROMANO. A Roma nel cimitero di Ponziano, deposizione di sant’Innocenzo I, papa, che difese san Giovanni Crisostomo, consolò Girolamo e approvò Agostino.
nome Beata Angela Salawa- titolo Terziaria Francescana- nome di battesimo Aniela Salawa- nascita 9 settembre 1881, Siepraw, Polonia- morte 12 marzo 1922, Cracovia, Polonia- ricorrenza 12 marzo- Beatificazione 13 agosto 1991 da papa Giovanni Paolo II- Nacque in una famiglia di contadini in una città chiamata Siepraw, vicino a Cracovia. All'età di 16 anni iniziò a prestare servizio domestico in una casa a Cracovia. Due anni dopo, commossa dalla morte di sua sorella Teresa e spinta da una voce interiore, prese la ferma decisione di cercare la santità nella sua vita umile e povera. Dedicò la sua vita ad aiutare i suoi simili, a fare amicizia con altre ancelle che aiutava con tutto ciò che aveva, e nel 1901 entrò a far parte dell'Unione dei Servi Cattolici (Associazione Santa Zita), e in questa associazione sviluppò un grande apostolato tra le sue compagne, diventando esempio e guida della condotta cristiana. Nel 1912 divenne Terziaria Francescana. "Amo il mio lavoro perché in esso trovo l'opportunità di soffrire molto, di lavorare molto e di pregare molto. Durante la prima guerra mondiale si prese cura di soldati feriti e prigionieri di guerra. Nel 1917 si ammalò e fu costretta a lasciare il lavoro a causa della sclerosi. In una stanza affittata molto angusta trascorse gli ultimi cinque anni della sua vita, in mezzo a continue sofferenze, che offrì a Dio per l'espiazione dei peccati del mondo, la conversione dei peccatori, la salvezza delle anime e del missionario espansione della Chiesa. È stata beatificata il 13 agosto 1991 da Giovanni Paolo II, a Cracovia. MARTIROLOGIO ROMANO. A Cracovia in Polonia, beata Angela Salawa, vergine del Terz’Ordine di San Francesco, che scelse di impegnare tutta la vita lavorando come donna di servizio: visse umilmente tra le serve e migrò al Signore in assoluta povertà.
nome Santi Pietro, Doroteo e Gorgonio- titolo Martiri di Nicomedia- ricorrenza 12 marzo- Diocleziano, imperatore romano, si trovava in Nicomedia quando venne a sapere che vi erano dei cristiani in casa sua. Per identificarli ideò un semplice stratagemma: espose delle immagini di divinità pagane e ordinò a tutti di offrire un sacrificio, cosa che i cristiani rifiutarono di fare. Il primo a subire la punizione dell'imperatore fu Pietro, il suo maggiordomo: venne appeso nudo e frustato fino a strappargli la carne dalle ossa; poi gli fu versato aceto e sale nelle piaghe. Doroteo, che si occupava della stanza da letto imperiale, e Gorgonio, un alto ufficiale, protestarono con Diocleziano per aver punito solo Pietro: «È anche la nostra fede» dissero, e poi spiegarono la loro posizione: «Ti siamo sempre stati fedeli, ma d'ora innanzi serviremo solo il Dio che ci ha creati». Insieme a un altro ufficiale di nome Migdonio furono torturati e condannati a morte. Nel frattempo Pietro venne calpestato e arso sul rogo; durante la terribile agonia non si udì alcun lamento. Altri martirologi citano molti altri nomi di persone, che probabilmente morirono nella stessa circostanza. MARTIROLOGIO ROMANO. Nello stesso luogo, passione di san Pietro, martire, che, addetto alle stanze dell’imperatore Diocleziano, lamentatosi senza timore dei supplizi inferti ai martiri, fu per ordine dello stesso imperatore condotto in un luogo pubblico e prima fu appeso e torturato per lunghissimo tempo a frustate, poi fatto bruciare su una graticola infuocata. Doroteo e Gorgonio poi, anch’essi preposti alle stanze del re, avendo protestato, furono puniti con analoghi supplizi e infine impiccati.
nome Beata Giustina Bezzoli Francucci- titolo Vergine benedettina- nome di battesimo Giustina Francucci Bezzoli- nascita 1257 circa, Arezzo- morte 12 marzo 1319, Arezzo- ricorrenza 12 marzo- Nacque ad Arezzo nella nobile famiglia dei Bezzoli Francucci. Di carattere gentile e umile, acquisì presto una certa maturità. Era figlia unica, erede di grandi risorse, e aveva davanti a sé un futuro invidiabile. All'età di 13 anni ottenne dal padre il permesso di entrare come benedettina nel monastero di San Marco nella sua città. Rimase in questo monastero per quattro anni, fino a quando l'intera comunità fu costretta ad abbandonarlo a causa della guerra scoppiata in città. Si trasferì così al monastero di Tutti i Santi. Anni dopo seppe che accanto al castello di Civitella (Civitella della Chiana) c'era una grotta e lì viveva come reclusa una vergine di nome Lucia. Ottenuta dal vescovo Guillermo Umbertini il permesso di vivere da reclusa in questo luogo, suo padre cercò di farla tornare a casa. Le due eremite vissero insieme per un breve periodo, fin quando Lucia morì. Giustina era sola dedita alla preghiera e alla penitenza. A 35 anni iniziò ad avere problemi alla vista ed fu costretta a tornare al suo monastero. Ma il monastero era stato saccheggiato molte volte dai soldati e il vescovo Hildebrando trasferì la comunità in un luogo sicuro. Nel 1315, Giustina cambiò nuovamente il suo luogo di residenza.<br /> Aveva una particolare devozione alla Passione di Cristo. Trascorse gli ultimi vent'anni della sua vita completamente cieca, soffrendo molte estasi. Viveva in condizioni di grande miseria ma confidando sempre nella Provvidenza e in chi chiedeva aiuto, li avrebbe aiutati come meglio poteva. Morì nella pace del Signore. Il suo corpo è conservato incorrotto nel monastero benedettino di Santa Maria del Fiore a Lapo. Il suo culto fu approvato il 14 gennaio 1891 da Leone XIII. MARTIROLOGIO ROMANO. Ad Arezzo, beata Giustina Francucci Bezzoli, vergine dell’Ordine di san Benedetto e reclusa.
nome San Teofane- titolo Martire- nascita 760 circa- morte 12 marzo 817, Samotracia- ricorrenza 12 marzo- Teofane era figlio di Teodota, di cui non si conosce nulla, e di Isacco, governatore imperiale delle isole del Mar Baltico. In seguito alla morte di Isacco, il bambino venne educato dalla madre, mentre l'imperatore si interessava a lui perché un giorno sarebbe stato erede di un'enorme fortuna. Fu proprio per questo motivo che un intimo amico dell'imperatore, Leone Chazares, progettò un InaLrinionio tra Teofane e la propria figlia dodicenne, che fu mandata a vivere con la futura suocera. Quando Teodota morì, si iniziarono a fare pressioni sulla coppia perché affrettassero il matrimonio, ed essi celebrarono le nozze, decidendo, però, di fare voto di castità. Alla morte del padre di lei, i due si separarono: dopo aver dato i loro beni ai poveri, la ragazza entrò in convento e Teofane iniziò la sua vita monastica. Ricevette l'abito a Sigriana e in seguito costruì un monastero sii un terreno di sua proprietà sull'isola di Calonima. Dopo sei anni fece ritorno a Sigriana, dove costruì un altro monastero di cui divenne igumeno. Nel 787 ricevette l'invito da parte del patriarca Tarasio a partecipare al secondo concilio di Nicea per difendere la venerazione delle immagini sacre. Il suo biografo attira l'attenzione sul contrasto tra il saio di sacco di Teofane e le ricche vesti dei vescovi, molti dei quali lo avevano conosciuto quando era un giovane benestante. Egli era comunque di aspetto nobile, secondo quanto riportato da S. Teodoro Studita (11 nov.), che lo descrive all'epoca della sua conversione: «Lasciò casa, città e nazione nel fiore della giovinezza: alto, bello, pieno di salute, ammirato per le sue qualità spirituali non meno che per quelle esteriori». Teofane conduceva una vita rigidamente ascetica, dedicando molte ore alla preghiera. La Chronographia mondiale da lui redatta, probabilmente tra 1'810 e 1'815, è rivelatrice della sua santissima vita rigidamente ascetica. Rielaborando materiali già scritti da Giorgio Sincello e attingendo da Socrate, Sozomeno, Teodoreto e dai documenti ufficiali di Costantinopoli, narrò gli eventi storici dal 281 all'813: la prima parte è puramente storica, la seconda è composta da tavole cronologiche, le cui date, a volte errate, sono state inserite da un'altra mano. Nonostante queste lacune l'opera è considerata una delle più pregevoli cronache storiografiche bizantine arrivate fino ai giorni nostri. La sua tranquilla esistenza venne interrotta quando l'imperatore Leone l'Armeno, ricordando le amicizie di Teofane a corte e la stima di cui godeva nel mondo religioso, tentò di ottenerne appoggio per sostenere la sua politica iconoclasta. Sebbene soffrisse di calcoli e altre malattie, Teofane andò a Costantinopoli. Minacciandolo e lusingandolo, Leone tentò di tirarlo dalla sua parte, ma Teofane ridendo gli disse: «Sono vecchio ormai, pieno di malanni e ben lontano da farmi sedurre da alcuno dei vantaggi materiali che ho rifiutato da giovane. Il mio monastero e i miei amici? Li rimetto nelle mani di Dio. Stai perdendo tempo se credi di potermi spaventare come se fossi uno scolaretto sotto la minaccia della verga». Altre persone furono mandate per tentare di convincerlo, ma egli rimase inflessibile, e fu perciò condannato alla tortura e alla prigione. Dopo trecento frustate fu gettato in una cella e per due anni tenuto prigioniero in condizioni disumane. La sua salute peggiorò, e alla fine venne confinato sull'isola di Samotracia, dove sopravvisse per soli diciassette giorni. Morì il 12 marzo 817. MARTIROLOGIO ROMANO. A Sigriana in Bitinia nel monastero di Campogrande, nell’odierna Turchia, deposizione di san Teofane, detto il Cronografo, che, da ricchissimo fattosi povero monaco, in quanto cultore delle sacre immagini fu tenuto in carcere per due anni dall’imperatore Leone l’Armeno e poi deportato a Samotracia, dove morì di stenti.
nome San Paolo Aureliano di Leon- titolo Vescovo- nascita Galles- morte 573, Bretagna, Francia- ricorrenza 12 marzo- La vita di S. Paolo Aureliano fu scritta da Wrmonoc, monaco di Landévennec nel ix o x secolo. L'autore afferma di essersi basato su un'opera precedente, ma il documento, ancora esistente, sembra aver unito altre Vite e non è completamente attendibile. Tuttavia gli eventi principali della vita di Paolo sono confermati da diverse tracce e dal culto testimoniato dai luoghi che portano il suo nome. Paolo Aureliano nacque nel Galles e fu educato insieme a S. Davide (1 mar.), S. Sansone (28 lug.) e S. Gilda (29 gen.) a Ynys Byr, da S. Iltuto (6 nov.). Fin da giovane scelse di condurre una vita solitaria e trascorse molti anni in preghiera e studio. Ordinato prete, radunò intorno a sé dodici compagni che vivevano in celle vicine. Con loro partì per la Bretagna, fermandosi a visitare la sorella monaca, Sitofolla, in Cornovaglia (Inghilterra). Sebbene non ci siano tracce dell'esistenza della sorella o del suo monastero, vi è un villaggio che porta il nome di Paolo vicino all'estremità occidentale della baia di Mount. Il piccolo gruppo sbarcò sull'isola di Ushant, in un luogo chiamato oggi PorzPol, rimanendovi per un certo periodo e spostandosi in seguito prima a Ploudamézeau e poi sull'isola di Batz, dove costruirono un monastero. Paolo fu talmente apprezzato dalla popolazione locale, che fu proposto per l'elezione a vescovo. Withur, il signore locale, dovette usare uno stratagemma per ottenere il suo consenso: mandò Paolo a Parigi dal re Childeberto con un messaggio urgente, che conteneva la richiesta di consacrarlo vescovo; nonostante le sue proteste, il re esaudì la richiesta e, fattolo consacrare, lo rimandò indietro. Paolo continuò a condurre una vita estremamente austera: si cibava unicamente di pane c acqua e nelle grandi feste aggiungeva un piccolo pesce. Pensando di essere ormai prossimo alla fine, lasciò il ministero episcopale ma poi in realtà visse ancora a lungo, sopravvivendo a due suoi discepoli che aveva designato come successori. Si dice che fosse dotato del dono della profezia e, secondo Wrmonoc, predisse l'invasione dei popoli del nord. Il nome della sede episcopale, Léon, fu cambiato in S. Paolo di Léon in sua memoria. MARTIROLOGIO ROMANO. A Saint-Pol-de-Léon in Bretagna, san Paolo Aureliano, primo vescovo di questa città.