@Namskot

25/05/2024 alle 15:16

Sul diritto naturale contro Bobbio e Kant

Sul diritto naturale contro Bobbio e Kant

Norberto Bobbio, in quanto teorico del diritto positivo – rifiutò il concetto di filosofia del diritto quando questa, vuole avere il compito di definire a priori il diritto, e quindi ergersi a essere filosofia dei «problemi ultimi», un linguaggio che un giurista non potrebbe mai accettare – tuttavia non basta eliminare il linguaggio per eliminare il problema e questo si capisce se si guarda alla miseria della concezione della giustizia che nasce dalle considerazioni di Bobbio. La sua idea di giustizia formalista appare del tutto inutilizzabile alla luce delle problematiche più inquietanti del nostro tempo, essendo rimasta sempre entro i limiti di una concezione positivistica del diritto, che separava la scienza del diritto, in quanto avalutativa, dalla giustizia, intesa sulla base di valori morali che, espressione – come lo stesso liberalismo - di un’ideologia, sono considerati come insieme di “beni o interessi” che il diritto protegge stando a contatto con “le matrici culturali da cui ogni ordinamento giuridico è derivato”. Bobbio ha considerato i diritti umani dei “pii desideri” prima che vengano riconosciuti in un ordinamento giuridico - nascendo essi dal bisogno di limitare il potere statale - e il diritto “un mero fatto storico”, mentre la sua militanza politica, da antifascista dell’ultima ora, si aggrappò, contraddittoriamente, sulla base di una retorica umanistica, a determinati valori morali “eterni”, entro i quali - in contrasto con il suo positivismo giuridico e con l’asserita storicità dei valori morali – egli considerò la vita e la libertà. Ma questa vita e libertà a cui si appellava contro il fascismo non era in grado di derivarli da nessun principio morale o di diritto ultimo, incapace di pensare l'esistenza di un diritto al di fuori della legge che egli confuse sempre con teorie della morale. Per questo coerentemente con il suo pensiero avrebbe dovuto ritenere la sua scelta politica antifascista dettata da un pio ma non reale illusione di libertà, che può essere giustificabile soltanto per criteri soggettivi di preferenza rispetto ad una qualsiasi altra “ideologia” anche se quest'ultima fosse il nazionalsocialismo. Bobbio, per di più, fu incapace di capire che alla base del suo stesso positivismo giuridico risiedono proprio i valori morali da lui tanto criticati, il suo relativismo storicistico si fondava su lo stesso positivismo giuridico, ma egli era incapace di rendersi minimamente conto di ciò. Norberto Bobbio rimane come emblema negativo di tutti i filosofi-giuristi incapaci di rendersi conto della miseria della loro concezione morale del diritto, muto, cieco e sordo, e dunque inservibile, di fronte ad ogni questione che debba essere risolta soltanto sulla base del diritto “naturale”, o su quella concezione di diritto che deve essere il fondamento extra giuridico, metaculturale, di ogni sistema giuridico se non si vuole cadere nel baratro del relativismo, a cui non si può sfuggire con l’appello ai valori morali, che sono sempre culturali e sono sempre quelle divinità in senso weberiano sempre in lotta tra di loro senza nessun vincitore. Il positivismo giuridico parte dal presupposto che il diritto ha come unica fonte un’autorità esternamente riconoscibile. Per Bobbio il diritto deve essere una dottrina pura del diritto, nel senso che esso è un sistema di norme che è fondato su una norma fondamentale che costituisce l’unità del sistema giuridico, valida indipendentemente dal contenuto delle norme concrete, data la natura puramente formale del sistema. Ogni sentenza è valida se si richiama ad una legge che, a sua volta, si richiama ad una norma costituzionalmente valida, e la Costituzione è valida se si richiama ad una norma fondamentale che è fuori del diritto positivo. Da questa deve derivare sia il diritto interno che quello internazionale, superiore al diritto interno. Di fatto Bobbio finisce con l’identificare il dover essere con l’essere della norma giuridica. Il giurista si deve occupare soltanto del diritto in quanto espressione di una norma (o dover essere) già esistente, cioè dell’essere, e non del dover essere, distinguendo il piano descrittivo da quello normativo. Qui si lascia insoluto il problema dell’origine della validità della norma fondamentale, e ciò significa dover riconoscere l’origine metagiuridica del diritto, in contrasto con l’identificazione del diritto con il suo ordinamento avente una validità fondata sulla volontà del legislatore. La norma fondamentale, infatti, non può non avere un’origine extra giuridica, per esempio in un’azione rivoluzionaria, che muta la norma fondamentale con una nuova Costituzione. Sulla base della dottrina pura del diritto non si ha alcun criterio per giudicare quale Costituzione sia preferibile. Infatti il criterio non può che essere o storico-sociologico o giusnatiralistico. L’aporia di questa concezione nasce dal fatto che si pretende di trovare nella norma fondamentale non soltanto il fondamento della produzione delle norme, ma anche il fondamento della loro validità. Ma ciò avrebbe dovuto comportare la considerazione del fondamento della legittimità da attribuire a determinate autorità che costituiscono la fonte delle norme, mentre per Bobbio è da escludere dalla scienza del diritto ogni considerazione esterna ad esso, in quanto comporterebbe il riferimento a fonti storiche o metafisiche. Qui si rinuncia alla domanda riguardante la legittimità del potere in quanto questa non può essere dedotta da alcuna norma. Infatti tale potere dovrebbe presupporre una norma ancora più elevata rispetto a quella fondamentale del sistema giuridico. Dunque arriviamo al punto di presupporre una norma fondamentale che di per sé è extra giuridica, ma di astenersi dal prendere posizione sul contenuto di tale norma, in quanto sarebbe di carattere prescrittivo e non descrittivo, cioè neutrale dal punto di vista dello scienziato del diritto. Qui la norma fondamentale è allo stesso tempo presupposta dall’ordinamento giuridico e allo stesso tempo non ne fa parte. Se tutto l’impianto giuridico è fondato sul ritenere che la «norma fondamentale» sia, appunto, normativa, mentre, contraddittoriamente, si aggiunge che essa non è prescrittiva in quanto il giurista si limita a pensare la «norma fondamentale», non potendo prescriverla, non si fa altro che ammettere quella natura “metagiuridica” di pura filosofia politica a cui Bobbio non arrivava. Il diritto naturale sfugge alla dicotomie cognitivismo/non-cognitivismo e, all’interno del cognitivismo, ontologismo (o realismo)/trascendentalismo (come quello di Kant). Tali dicotomie nascono dalla diatriba circa la natura delle asserzioni prescrittive della morale, se esse siano da ritenere simili alle proposizioni enunciative (con i valori di vero e di falso) o siano del tutto separate. Il diritto naturale, da una parte, è conseguente alla verità fattuale che ogni organismo tende alla sua autoconservazione, mentre, dall’altra, tale tendenza sarebbe negata se non si accompagnasse al diritto di conservarla. Gli spregiatori del diritto naturale si contraddicono perché dovrebbero negare a se stessi il diritto all’autoconservazione, necessario per continuare a negare l’esistenza del diritto naturale, che, pertanto, rientra nel cognitivismo ontologico, mentre sono del tutto artificiali le suddette dicotomie se riferite ai valori morali, giacché questi non esistono nella realtà (come vorrebbe il cognitivismo ontologico morale ) e non sono assimilabili a verità di ragione (come pretende il cognitivismo – in realtà pseudocognitivismo - trascendentale dell’imperativo categorico di Kant). Né una prescrizione morale - come pretende il non-cognitivismo (o non-descrittivismo) di Hare (che richiede di massimizzare le soddisfazioni delle preferenze di tutti) - può essere universale se sta fuori del cognitivismo, come dimostrato dall’insanabile conflitto culturale tra valori morali. Infatti, se ognuno dovesse massimizzare le preferenze di tutti – e perciò anche le credenze religiose – dovrebbe accettare di andar contro le proprie. Ma, quando venga affacciato il tema del diritto naturale, questo si nasconde subito dietro l’ipocrita espressione dei diritti umani, ad evitare la domanda riguardante il fondamento di tali diritti, dando per scontato che esso esistano, e basta. In realtà anche la distinzione tra morale e diritto, tra il diritto che deve essere è il diritto che è, è una distinzione mal posta perché favorisce anch’essa una confusione tra morale e diritto nel diritto che deve essere, promuovendo il relativismo dei valori morali, da cui si può uscire soltanto grazie al diritto naturale, che è metaculturale solo in quanto sia diritto all’autoconservazione. Tutti gli altri diritti sono convenzionali, giustificabili quando non siano in contrasto con il diritto naturale, mentre le norme morali hanno una falsa pretesa di universalità, dipendendo dai costumi sociali, culturali. Da qui tutti i possibili conflitti tra metacultura del diritto naturale e culture dei valori morali. Una seria obiezione contro il diritto naturale è provenuta dalla cosiddetta legge di Hume, secondo cui non si può trarre il dover essere dall’essere, cioè dal fatto. Ma questa obiezione oggi non pare avere più quella forza deterrente che aveva prima. È stato, infatti, osservato, ma sulla base di una asserita struttura teleologica, che esistono fatti che esprimono un essere che è anche un dover essere. In particolare, è stato Hans Jonas a scrivere che nel mondo esistono scopi ontologicamente fondati che custodiscono valori. Scrive Jonas, parafrasando l’imperativo categorico di Kant: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”; “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita; “non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra”; “Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà”. L’asserita necessità di passare da un’etica antropocentrica ad un’etica planetaria è in Jonas soltanto la maschera di un rinnovato antropocentrismo che considera la salvaguardia dell’ambiente in funzione della salvaguardia dell’umanità. Ciò consegue dalla fallacia naturalistica che è sottesa alla pretesa che in natura vi siano degli scopi o valori e che si evidenzia, per esempio, quando Jonas scrive: “La natura custodisce dei valori in quanto custodisce degli scopi, ed è perciò tutt’altro che avalutativa…Nella capacità di avere degli scopi in generale possiamo scorgere un bene-in sé, la cui infinita superiorità rispetto a ogni assenza di scopo dell’essere è intuitivamente certa…In questo tendere verso lo scopo possiamo scorgere un’autoaffermazione sostanziale dell’essere, che si pone in senso assoluto come migliore rispetto al non essere. In ogni scopo l’essere si dichiara a favore di se stesso e contro il nulla”. Jonas scrive che “ogni essere vivente è fine a se stesso” e che “sotto questo aspetto l’uomo non è in nulla superiore agli altri esseri”, ma per precisare subito che “soltanto lui è responsabile anche per essi”. Come se gli esseri viventi dipendessero per loro natura dall’esistenza dell’umanità, anche se la «dignità umana», aggiunge Jonas, è soltanto potenziale di fronte alle bassezze dell’umanità, che, tuttavia, ha sempre la precedenza, “non importa se la meriti in base a quello che ha già compiuto e a quello che probabilmente intende ancora compiere, avendo essa una «missione mondana» che non è diminuita dalla considerazione che sia stata l’evoluzione, “il caso cieco a farla comparire”. Da queste premesse - che sono una congerie di confusioni che nascono dalla contraddittoria sintesi dell’evoluzione biologica con un preteso primato morale dell’uomo, che si traduce nel primato ontologico della specie umana - Jonas trae il diritto alla vita, trasformando la premessa in conclusione. Infatti non sono gli asseriti scopi o valori dell’essere – in realtà proiezioni umane sull’essere – che possano fondare il diritto alla vita, perché è il diritto alla vita che crea degli scopi in ogni organismo vivente, che si risolvono tutti in mezzi atti al conseguimento del benessere dell’organismo, e perciò alla conservazione della vita stessa. Anche quando Jonas sembra superare i limiti di un rinnovato antropocentrismo, scrivendo che “la comunanza dei destini dell’uomo e della natura, riscoperta nel pericolo, ci fa riscoprire la dignità propria della natura, imponendoci di conservarne l’integrità”, riemerge la concezione antropocentrica nella sola preoccupazione della sopravvivenza dell’umanità: “Per il momento ogni sforzo in vista dell’uomo autentico passa in seconda linea rispetto al puro e semplice salvataggio del suo presupposto, l’esistenza dell’umanità in un ambiente naturale sufficiente. Nella minaccia totale di questo momento storico-universale siamo risospinti indietro dalla questione sempre aperta, e di variabile risposta, di che cosa debba essere l’uomo, all’imperativo originario, preliminare, anche se fino ad ora mai diventato attuale, che egli debba essere, appunto in quanto uomo”. Dunque la comunanza dei destini – parola senza senso - dell’uomo e della natura appare in funzione della sopravvivenza dell’uomo sulla Terra. Non vi è, pertanto, da meravigliarsi che in Jonas riemerga la concezione heideggeriana dell’uomo custode dell’essere, per di più corrotta, nonostante l’ateismo di fondo dalla cultura ebraica di Jonas, in un impiego strumentale della concezione biblica che lo induce a scrivere – in merito all’ingegneria genetica – che l’uomo non può ricreare o rimodellare la specie (umana): “Noi non siamo stati autorizzati, così direbbe la pietas ebraica, a creare una nuova immagine, né possiamo rivendicare una saggezza e conoscenza tali da arrogarci un tale ruolo. Se c’è qualcosa di vero nel fatto che l’uomo è stato creato a immagine di Dio, allora il timore reverenziale…dovrebbe impedirci di intrometterci in quel profondo segreto che è l’uomo”. E così salta fuori anche la concezione religiosa nell’impiego del termine “sacralità” della vita, naturalmente umana, e nel riferimento ad un piano divino del mondo: “noi non siamo i soggetti che possono creare l’uomo, noi siamo stati creati”. Così l’assunto importante di Jonas, secondo cui è l’essere stesso il fondamento del dover essere, si immiserisce in una concezione morale della natura, confermando che dietro ogni concezione morale, e perciò antropocentrica, si nasconde, cosciente o incosciente, una concezione religiosa – antiscientifica – della natura, considerata gerarchicamente come una scala di valori avente al vertice l’uomo, mentre la natura, al contrario, non ha né scopi né valori. Chi si appelli ancora ai valori morali deve rispondere alla seguente domanda: quando sarebbero apparsi i valori morali nella coscienza della specie umana nella sua evoluzione dall’australophitecus al sapiens sapiens? La domanda, pur necessaria, non può avere una risposta, e ciò valga a dimostrare la mancanza di senso dello stesso parlare di valori morali, che, risultando conseguentemente culturali, non possono sottrarsi al relativismo, mentre il diritto naturale sussisterebbe anche se la specie umana non esistesse. In questo senso dovrebbe essere ancora valida la legge di Hume. Come dovrebbe essere valido l’argomento della fallacia naturalistica che George Moore (Pricipia Ethica, 1903) portava contro coloro che presumevano di poter trarre dei valori dalla natura, quasi fossero delle proprietà intrinseche naturali. Ma contro questa concezione Moore sostenne la strana teoria che il bene è una qualità non naturale e una nozione indefinibile (come il giallo), e tuttavia indipendente dal soggetto conoscente. Gli oggetti dotati di valore intrinseco sono le cose belle della natura e dell’arte e l’amore per la comunione umana. Si può osservare che in tal modo i beni si pongono in una sorta di terzo mondo, tra gli intelligibili di Platone e le qualità naturali, entro un contesto che sottende un idealismo dimezzato, in contrasto cioè con il realismo di Moore, secondo cui conoscere significa porre una relazione di esteriorità, e non di inclusione, tra la coscienza e gli oggetti, che non vengono modificati dal conoscere. Il risultato è il conservatorismo di Moore, che consiglia di attenersi in pratica a quelle morali che promettono una maggiore realizzazione di beni intrinseci. La contraddittorietà di tale tesi si rende evidente quando si consideri che l’oggettività del bene, come concepita da Moore, sarebbe pur sempre dipendente da un soggetto se il bene non è una qualità naturale. La legge di Hume e la fallacia naturalistica non possono riguardare il diritto naturale, che, in quanto prescinde dai valori morali, proiettati antropomorficamente sulla natura, si limita a cogliere in essa soltanto la tendenza di ogni organismo all’autoconservazione, in cui unicamente l’essere coincide con il dover essere. Infatti, se si considerasse questa tendenza soltanto un fatto, e dunque un essere che non implica il dover essere, si arriverebbe alla conclusione contraddittoria che la distruzione della natura che non fosse causata da accidentalità naturali sarebbe un’auto-distruzione della natura, essendo l’uomo parte della natura, per cui non vi sarebbe da dolersi della sua distruzione, che sarebbe un fatto naturale, mentre, al contrario, si deve riconoscere che lo sarebbe soltanto a causa di cataclismi climatici, cioè di forze puramente fisiche, che determinerebbero l’estinzione della vita, come in parte è sempre avvenuto in centinaia di milioni di anni con l’estinzione di vari generi e specie animali. Il che non contraddice la tendenza di ogni forma di vita a conservarsi contro le avversità fisiche esterne. Il potenziale distruttivo dell’uomo può porre in pericolo la vita sul pianeta soltanto perché la sua forza, con il suo preteso dominio sulla natura, è un fatto culturale, come la sua pretesa di avere egli solo dei diritti naturali. Ma, essendo unica l’origine di tutte le forme di vita, se non si riconosce a tutte il diritto a conservarsi, come conseguenza della loro tendenza all’autoconservazione, lo stesso diritto non può esistere nemmeno per la vita individuale umana, e dunque gli spregiatori del diritto naturale non avrebbero, se non convenzionalmente, il diritto di continuare a vivere per continuare a spregiare il diritto naturale. Ma, quando questo voglia trovare un fondamento sui valori morali, la malattia mentale – culturale - del-l’antropocentrismo, dura ad essere debellata, si insinua subito nel postulare scopi e valori nella natura per giustificare una concezione gerarchica che continua a vedere l’uomo come padrona della natura in quanto postosi al vertice di essa, pur essendo l’ultimo arrivato, scoprendo così la sua concezione di fondo finalistica, cioè antiscientifica. La catena preda-predatore non è una negazione, bensì una conferma, del diritto naturale, quando si consideri che il predatore uccide per la propria autoconservazione e che il predato ha le stesse possibilità di sopravvivenza del predatore. Il diritto naturale implica anche il diritto alla libertà individuale, giacché non può esistere il diritto all’autoconservazione quando non si accompagni alla libertà di ogni individuo di conservarsi da sé. La libertà, dunque, non può avere una connotazione morale, come sempre è stata intesa, da coloro che, come Kant, hanno fatto della libertà morale, cioè umana, il fondamento del diritto, invece di considerarla come effetto del diritto naturale.

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28 commenti

@leggotuttoenonpubblico

6 mesi fa

il concetto e che la giustizia degli esseri viventi si applica nel gestire cose fisiche, perche il fine della giustizia e far vivere bene gli esseri viventi, perche anche se la matematica e la fisica, nonostante gestiscono quasi tutte le cose esistenti, gestisce il mondo non gli importa niente se rubbi o uccidi, mentre agli esseri viventi importa..

+1 punto

@leggotuttoenonpubblico

6 mesi fa

viste tutte le continue guerre umane che anno portato interi popoli all'estinzione non direi che il cervello fisico porta gli esseri all'auto conservazione lol, piuttosto dei valori etici-morali se applicati moralmente possono portare alla fine delle guerre e alla ricerca della felicità lol

+1 punto
OP

@Namskot

6 mesi fa

1) Bobbio non era comunista, era un liberale😂 2) Non sono un Filosofo, e non voglio esserlo 3) se avessi la soluzione ai problemi del mondo non sarei a scrivere in questo sito. 4) potrei continuare ma io stavo parlando di altro.😅

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