@Vitupero
I santi di oggi 15 gennaio:
nome Sant'Efisio
titolo Martire
nascita 250, Elia in Antiochia
morte 15 gennaio 303, Nora, Sardegna
ricorrenza 15 gennaio, 1-4 maggio (scioglimento del voto)
Santuario principale Chiesa di Sant'Efisio a Cagliari
Attributi palma del martirio e segno della croce impresso sul palmo della mano destra
Patrono di arcidiocesi di Cagliari, compatrono di Cagliari e patrono di Capoterra
Cavalcava con un gruppo di armati, lorica lucente, elmo sorretto con la mano destra. L'esercito lo seguiva, a un'ora circa di marcia. Invitò i compagni a fermarsi: avrebbe fatto una galoppata fino su quella sommità dove c'era un ciuffo d'alberi, per guardare verso Brindisi, la città ribelle ormai vicina.
Quando fu solo, mentre il cavallo andava al passo, d'un tratto una luce violenta lo investì, l'animale fece uno scarto, lui cadde a terra. E così si ripeté per Efisio, generale romano, il miracolo di Saulo sulla via di Damasco. «Dove vai, Efisio?», tuonò una voce. Il generale estrasse la spada: «Chi sei», reagì. «Come osi parlarmi così?». Disse la voce: «Sono Cristo, figlio di Dio. In virtù di questa croce, tu sconfiggerai i tuoi nemici». La luce scomparve. Efisio, sconvolto, si guardò la mano destra: sul palmo era impressa una piccola croce. L'indomani sbaragliò il nemico, sul campo rimasero dodicimila cadaveri. Efisio, dunque, meritava bene la fiducia del suo imperatore Diocleziano che aveva pensato di nominarlo suo successore e di dargli in moglie la figlia. Era un valoroso combattente, ligio agli ordini del suo principe, che ne contraccambiava la fedeltà con prove continue di fiducia. Quanta strada aveva fatto, quel generale ancor giovane per arrivare al massimo della carriera e della gloria! Era nato a Elia in una cittadina dell'Asia Minore, di famiglia che definiremmo oggi borghese. Della sua vita si sa poco. Le notizie ufficiali e non controverse sono scarse, la «passio» che Io riguarda fu composta in epoca tarda, quando era difficile scrostare la storia vera dalle molte leggende di cui la tradizione popolare l'aveva arricchita. Anche gli Atti dei martiri si dilungano sul supplizio cui fu sottoposto, ma trascurano i dati biografici. Il padre di Efisio, Cristoforo, era un onest'uomo, che in età avanzatasi era convertito al cristianesimo, sia pure senza che lo sapesse la moglie. Questa,una donna che la tradizione vuole di discutibile comportamento, sembra fosse un'arrivista di prim'ordine. Non le piaceva vivere in provincia, il suo sogno sarebbe stato quello di trasferirsi a Roma per entrare nella buona società, cosa non facile anche per una persona in vista nell'ambiente locale come era suo marito. Aveva perciò puntato tutte le speranze su quell'unico figlio: il ragazzo era intelligente, volonteroso, avrebbe certo soddisfatto le aspirazioni della madre. Intanto aveva potuto, sia pure a prezzo di qualche sforzo familiare, istruirsi come si conveniva a un giovane di buona famiglia: era andato perfino ad Atene per raffinarsi nello studio delle lettere, delle arti, della filosofia. E cresceva bene sotto ogni aspetto: dedito com'era agli esercizi fisici oltre che a quelli intellettuali. Poteva dire con orgoglio «civis romanus sum». ma oltre a volerlo cittadino romano, sua madre sperava che lo diventasse di fatto trasferendosi nella capitale dell'impero. C'era un'unica strada, per Efisio: arruolarsi nell'eserito. Aveva tutte le qualità per primeggiare. Cristoforo morì senza veder realizzati i sogni della moglie che erano diventati un poco anche i suoi: era orgoglioso di suo figlio e si era spento pronosticandogli una vita felice, importante. Quando, infatti, Diocleziano (imperatore dal 284 al 305) passò per Elia. la cittadina di Efisio, non fu difficile presentargli il giovane e convincerlo della serietà della sua vocazione militare. Fu arruolato. Aveva vent'anni a quell'epoca ed era ben deciso a far carriera: pensava soltanto al suo lavoro ed emerse presto. In breve divenne una delle guardie del corpo più fidate del principe, uno dei pretoriani più attaccati al dovere, un soldato che meritava assoluta fiducia. Il bell'aspetto non guastava; la cultura, notevole in Efisio, lo raccomandava ai più alti gradi dell'impero. Non passarono molti anni che il giovane di Elia giunse alla sommità della gerarchia: Diocleziano l'aveva nominato generale e a lui aveva preso addirittura a guardare come al suo possibile successore. Erano tempi in cui il mestiere delle armi si presentava duro e carico di responsabilità: tenere insieme l'impero, con le genti ormai Insofferenti della dominazione romana e i barbari che premevano alle frontiere, impegnava fino allo stremo gli eserciti. S'aggiungano poi i fastidi dati da quella setta che si diffondeva pericolosamente, predicando l'umiltà e la fratellanza: i cristiani. Dicevano, è vero, «Date a Cesare quel che è di Cesare», ma rifiutavano di sacrificare davanti ai simulacri degli dei ufficiali e davanti a quello dell' imperatore. Costituivano, insomma, un polo di attrazione per gli scontenti, per i contestatori, per gli sfruttati. Dopo la vittoria a Brindisi, intanto, Efisio, accolto a Roma con tutti gli onori, aveva ricevuto un altro importante incarico: l' imperatore gli ordinò di ridurre alla ragione i ribelli che operavano in Sardegna. Un impegno considerato certamente arduo, ma che il giovane generale avrebbe assolto senza troppe difficoltà. Almeno così pensava, perché, al contrario, l'impresa non si rivelò facile. Sbarcato con un esercito a Oristano, si dispose a sedare la rivolta in Barbagia, ma si trovò di fronte un avversario duro e tenace, soprattutto sfuggente. E fu ricacciato in mare. Una sconfitta impreveduta e frustrante: Efisio era combattuto dall'orgoglio ferito e dal desiderio di risolvere in fretta l'impresa per rifarsi e per non sfigurare davanti a Diocleziano. Fu allora che si trovò a pensare più di quanto non avesse fatto fino a quel momento all'episodio di cui era stato protagonista a Brindisi. E, nell' animo del duro militare si affacciò una crisi che, anche sotto la spinta degli insuccessi, lo indusse a dar credito a quanto gli aveva detto quella voce misteriosa, quel Cristo ancora quasi ignoto per lui. Antesignano di Costantino che si affermò in battaglia inalberando la Croce per l'avvertimento soprannaturale «In hoc signo vinces», decise anch' egli di sostituire le sue insegne con la Croce, analoga a quella impressa misteriosamente sul palmo della sua mano. E vinse, infatti, come gli era stato promesso. Sia pure a prezzo d'una lotta estenuante, riuscì a domare la guerriglia, a riportare all'obbedienza le popolazioni sarde ribelli. Se Efisio aveva riconquistato la Barbagia, la nuova fede conquistò lui. Si fece cristiano e, con l'ardore del neofita, convertì al cristianesimo il popolo assoggettato. Diocleziano, intanto, si era complimentato con il suo generale vittorioso, ma, poiché Efisio aveva a corte degli avversari, questi complimenti erano viziati dalle voci, rivelatesi esatte, che presero a correre sul suo conto. Che il più valido e fedele dei suoi generali fosse passato al «nemico» non poteva far piacere all'imperatore. Se si aggiungono poi i progetti che egli aveva fatto su di lui, si può ben comprendere la perplessità di Diocleziano. Il quale, dapprincipio, finse di ignorare quanto si mormorava sul conto di Efisio, poi cercò di convincere se stesso che, cristiano o non cristiano che egli fosse, era pur sempre un soldato validissimo. Ma, alla fine fu
costretto, dalle pressioni della corte, a prendere dei provvedimenti. Non si trattava di intervenire soltanto nei confronti di Efisio, naturalmente. Diocleziano ordinò contro i cristiani una delle persecuzioni fra le più feroci e sanguinose. Quanto al generale che si trovava in Sardegna, fu arrestato, torturato, gettato in prigione. Rifiutò di abiurare alla nuova fede. A nulla valsero le sollecitazioni dell' imperatore: Efisio capiva benissimo che con quel rifiuto cadevano tutte le sue speranze e le sue prospettive: non avrebbe mai sposato la figlia del capo supremo dell'impero, non gli sarebbe mai succeduto. Concluse, anzi, in maniera definitiva, come racconta la sua «passio»: «Il vero onore e la vera ricchezza stanno nel servire Cristo. Rendo la spada di cui benevolo l'imperatore mi cinse: ha fatto il suo compito». E si dispose a subire le conseguenze della sua decisione: sarebbe stato certamente condannato a morte. Così fu. Ma se la sentenza del magistrato dell'isola fu immediata, per l'esecuzione non avvenne altrettanto. Evidentemente, per intervento soprannaturale, il martirio del generale romano doveva essere esemplare: dal sangue dei martiri dovevano nascere altri cristiani, le notizie sui tormenti subiti da Efisio dovevano correre il mondo il più lontano possibile, per rafforzare la resistenza dei cristiani nella loro fede. Il martirio del generale romano cominciò a Nora, vicino a Cagliari, il 10 gennaio del 303. Nella piazza accorse molta gente richiamata dall'avvenimento eccezionale. Efisio fu affidato, come del resto richiedeva il suo grado, al boia più abile dell'isola. Si trattava, narra la leggenda, d'un nero gigantesco, certo Archelao, un ex schiavo che si era guadagnato la libertà e il macabro mestiere battendosi nel Colosseo di Roma con tre leoni, due gladiatori e dieci cristiani e uccidendo tutti. Archelao alzò la scure e si accinse a calarla sul collo di Efisio. Ma, per quanti sforzi facesse il negto (alto due metri, enorme), la scure non scese. Il boia sudava, i muscoli si erano gonfiati fino a scoppiare, ma le braccia di Archelao restarono bloccate in alto. La folla lo incitava, ma senza risultato. La gente cominciava a mormorare: il generale, dicevano, è protetto dal suo Dio che non ne vuole la morte, questo Cristo è dunque ben potente. C'erano anche i cristiani, che traevano motivo di speranza e di rinnovata fede dall'impotenza del boia. La situazione era imbarazzante e pericolosa. Bisognava risolverla. Efisio fu cosparso di pece e di olio, venne coricato su una graticola sotto cui fu acceso un gran fuoco. Ma nemmeno le fiamme l'ebbero vinta, il generale rimase indenne. Il magistrato era sconvolto, il boia di più. La sentenza fu sospesa, Efisio sottoposto a tormenti supplementari: fu flagellato, incatenato, infine chiuso in un forno da pane per alcuni giorni. Le fiamme arroventarono la fornace, ma, quando il magistrato si decise a farla aprire, Efisio ne uscì con le vesti intatte. A questo punto, la folla, nella quale sempre più si maturava la convinzione che il Cristo di Efisio fosse assai più potente dell'imperatore e dei suoi rappresentanti, chiese che fosse salvata la vita del generale cristiano. Come si usava nelle arene, i presenti alzarono il pollice domandando la liberazione del suppliziato. Fu chiamato a decidere il governatore della Sardegna, Flaviano. Questi intervenne, si fece portare davanti Efisio, cercò ancora una volta di convincerlo all'abiura: gli promise vita e libertà se avesse sacrificato agli dei pagani. Ma la ferma risposta del martire lo convinse che era inutile insistere. Flaviano ordinò allora al nero Archelao di decapitare il generale e questa volta la scure piombò sul collo del condannato, spiccandogli il capo dal busto. Era il 15 gennaio del 303. Il racconto dei cinque giorni di martirio di Efisio si diffuse ben presto in tutta la Sardegna. I sardi presero a considerare il generale di Elia uno dei loro, sardo d'adozione. I cristiani cominciarono a venerarlo come patrono dell'isola, un'attribuzione che giunse ufficialmente soltanto nel 1800. A Nora, sul luogo del supplizio, fu eretta una piccola chiesa, a Cagliari una più grande, restaurata successivamente nel 1500 e nel 1700. Nel Cinquecento, sorsero anche confraternite in onore di Efisio che presero largamente piede. Inoltre, dal 1657 il Santo è festeggiato ogni anno, il primo maggio, con una solenne processione detta il «calendimaggio cagliaritano», a ricordo d'uno dei grandi miracoli attribuiti al martire: quello d'aver fatto cessare nel 1656 una pestilenza che stava decimando la popolazione dell'isola. L'altro miracolo di grande portata attribuito al martire è quello di essersi messo idealmente a capo dei cagliaritani nel 1793, aiutandoli a resistere per quattro mesi all'assedio dei francesi. La vita del Santo è narrata in una stupenda serie di affreschi di Spinello Aretino nel Camposanto di Pisa (città che conserva reliquie del martire), eseguiti fra il 1391 e il 1392. Altre opere di pittori e scultori di minor rilievo sono conservate in varie chiese sarde, mentre Efisio è raffigurato nel paliotto d'argento risalente al 1655 che orna l'altare maggiore del duomo di Cagliari.
Ma la devozione dei sardi per il loro patrono si manifesta soprattutto nei citati festeggiamenti del «calendimaggio», cui partecipano migliaia e migliaia di persone. La statua lignea seicentesca del Santo, conservata nella chiesa a lui intitolata, muove da Cagliari in processione e tocca, con un pellegrinaggio che dura quattro giorni, vari centri dell'isola. Fanno scorta al generale romano cavalieri in antiche divise di miliziani sardi, nonché le rappresentanze di tutte le armi, essendo Sant'Efisio il patrono dell'esercito italiano. MARTIROLOGIO ROMANO. A Càgliari, in Sardégna, sant’Efisio Martire, il quale, nella persecuzione di Diocleziàno, sotto il giudice Flaviàno, dopo aver superato per divina virtù molti tormenti, alla fine, decapitato, vincitore se ne volò al cielo.
nome San Mauro<br /> titolo Abate<br /> nascita 512, Roma<br /> morte 15 gennaio 584, Angers, Francia<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> Attributi croce abbaziale, vanga, gruccia, bilancia<br /> Patrono di giardinieri, carbonai, calderai, raffreddati, zoppi, varie località (vedi elenco nel testo); invocato contro i reumatismi e contro la gotta.<br /> La splendida figura di San Benedetto forma, nella storia del monachesimo occidentale, una specie di mistico sistema planetario, di cui il Patriarca è il sole; sua sorella Scolastica è la luna, e le prime due stelle sono San Mauro e San Placido. La leggenda ci presenta i due primi discepoli di San Benedetto, giovanissimi, nel momento in cui sono condotti al Patriarca dai loro stessi genitori. Mauro apparteneva ad una famiglia senatoriale romana. Il nome del padre, Equizio, e quello della madre, Giulia, dicono chiaramente la loro nobiltà. A soli dodici anni, Mauro, nato a Roma nel 512, fu presentato a San Benedetto. Si legge infatti nei Dialoghi di San Gregorio Magno: « Perseverando lo santissimo Benedetto nella solitudine e crescendo in fama e in virtù... cominciarono eziandio li nobili e onesti uomini di Roma a venire a lui e offrirgli li propri figlioli, acciò che li nutricasse nel servigio di Dio... Et allora, fra gli altri, gli furono offerti due giovani di buon aspetto », cioè Mauro e Placido. San Benedetto accolse con gioia tanto Mauro quanto Placido, che furono, come si suol dire, le pupille dei suoi occhi. Docile come cera vergine, austero già nella sua fanciullezza e praticante la più assoluta astinenza, Mauro fu presto portato da San Benedetto come esempio agli altri monaci più indocili e anche ribelli al morso del grande riformatore. Specialmente la perfetta obbedienza era di consolazione al Patriarca e doveva essere d'esempio agli altri religiosi. Per questo, nei Dialoghi, San Gregorio narra un episodio, del quale sono protagonisti proprio i due allievi prediletti di San Benedetto. Un giorno, infatti, Placido, che era andato ad attinger acqua, cadde in un lago. San Benedetto chiamò San Mauro e gli disse di correre al salvamento del confratello, che l'onda allontanava dalla riva. San Mauro corse fino alla riva, e oltre ancora, sull'acqua. Raggiunse il compagno e lo trasse di pericolo. Solo quando furono a terra, « voltandosi a drieto dice San Gregorio conobbe che era andato sopra l'acqua ». Lo qual miracolo, conclude San Gregorio, Santo Benedetto imputò non ai suoi meriti, ma all'ubbidienza di Mauro; e d'altra parte Mauro dicea che per solo comandamento e merito di Santo Benedetto era fatto, e non per suo ».<br /> Soltanto una volta il giovane Mauro diede un dispiacere al suo maestro. San Benedetto era perseguitato da un pessimo prete di nome Fiorenzo, che lo vessava in mille maniere. L'indegno ministro di Dio morì, e Mauro, non sapendo fingere, corse a darne notizia a San Benedetto, con evidente sollievo e soddisfazione. Il Santo Io rimproverò di quella notizia con un'aspra penitenza, che Mauro accettò, riconoscendo d'aver peccato. Mauro seguì San Benedetto a Montecassino, dove divenne priore e amministratore del monastero che doveva avere una storia tanto gloriosa. Egli veniva ormai considerato il successore di San Benedetto. In assenza del Patriarca, tutti si rivolgevano a lui, anche per ottenere guarigioni. Un giorno venne condotto a Montecassino un bambino muto. Si voleva che lo benedicesse San Benedetto, ma l'Abate non c'era. Ed ecco Mauro che, per quanto Priore, torna dal lavoro dei campi, con la zappa sulle spalle. Presentano a lui il mutolino. Egli da prima si schermisce. Poi, cedendo alle preghiere, lo benedice e lo guarisce. Tutti pensavano ch'egli avrebbe preso il posto di San Benedetto, a Montecassino quando dalla Francia fu richiesta una fondazione benedettina. San Benedetto affidò a Mauro quel delicato e impegnativo incarico. Lo munì della Regola, e lo inviò, con la sua benedizione, nel lontano paese. E il suo prediletto fondò il primo monastero benedettino in terra francese, sulla riva della Loira, a Glanfeuil. Verso i 70 anni, rinunziò al pastorale d'Abate per prepararsi santamente alla morte, che lo colse improvvisa, ma non di sorpresa, il 15 gennaio del 584. MARTIROLOGIO ROMANO. Nel territorio d'Angers il beato Màuro Abate, discepolo di san Benedétto. Alla scuola di questi fu istruito dalla sua infanzia e dei suoi progressi notevoli ne fan fede i prodigi ch'egli compì sotto un tale maestro, soprattutto col camminare a piedi sopra le acque, cosa ammirabile e dopo Piétro quasi mai più avvenuta. Mandato poi dallo stesso Benedétto in Frància, quivi, avendo costruito un celebre monastero, che governò per quarant'anni, celebre per gloria di miracoli, si riposò in pace.
nome Beato Giacomo l'Elemosiniere<br /> titolo Terziario, avvocato e martire <br /> nome di battesimo Giacomo dalla Villa<br /> nascita 1260 circa, Città della Pieve, Perugia<br /> morte 15 gennaio 1304, Città della Pieve, Perugia<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> Beatificazione 17 maggio 1807 da papa Pio VII<br /> Giacomo era nato da una famiglia relativamente ricca di Città della Pieve (Umbria), situata a dieci chilometri da Chiusi (Umbria). Studiò diritto e poi decise di farsi sacerdote. Restaurò un ospedale e la cappella annessa, caduti in disuso, adibendoli a ospizio per i poveri del quartiere, e sfruttò la sua preparazione giuridica per aiutare gli oppressi.</p> <p> Le sue conoscenze giuridiche lo spinsero anche a esaminare i documenti relativi alla storia dell'ospedale, nei quali scoprì che alcuni vescovi della cittadina si erano appropriati indebitamente delle entrate del nosocomio. Giacomo allora mostrò al vescovo i documenti e cortesemente gli chiese di riparare. Al rifiuto di costui Giacomo fece ricorso sia ai tribunali civili sia a quelli ecclesiastici, vincendo le cause. Il vescovo, nascondendo il suo risentimento, invitò Giacomo a cena; aveva però già assoldato una banda di manigoldi, per tendergli un'imboscata e ucciderlo mentre tornava a casa. Questo accadeva il 15 gennaio del 1304. La vicenda sconfina poi nel sovrannaturale: per mesi non si trovò più il suo corpo, fino a quando alcuni contadini vennero avvertiti della sua presenza da un pero fiorito miracolosamente e da una voce che lo identificava. Alla fine il corpo venne sepolto nell'ospizio e 174 anni dopo, quando fu traslato, si dice che fosse incorrotto. Sorse anche una disputa su quale fosse l'ordine a cui era appartenuto, se quello dei serviti, che lo include nel proprio martirologio, o l'Ordine terziario francescano che, pur non includendolo nel proprio, sostiene che Giacomo sia stato un suo membro.<br /> MARTIROLOGIO ROMANO. A Città della Pieve in Umbria, beato Giacomo, detto l’Elemosiniere, giurisperito che si fece avvocato dei poveri e degli oppressi.
nome Sant'Arnoldo Janssen<br /> titolo Fondatore, Presbitero e missionario <br /> nascita 5 novembre 1837, Goch, Germania<br /> morte 15 gennaio 1909, Steyl, Olanda<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> Beatificazione 19 ottobre 1975 da papa Paolo VI<br /> Canonizzazione 5 ottobre 2003 da papa Giovanni Paolo II<br /> Il fondatore dei missionari del Divin Verbo era il secondo degli otto figli di Gerardo Janssen e di sua moglie Anna Caterina. Nacque il 5 novembre 1837 a Goch, nel Basso Reno, nella diocesi di Miinsten Descriveva i suoi genitori come «schietti e semplici»: suo padre era un piccolo agricoltore che si occupava anche di trasporti; sua madre univa la cura della numerosa famiglia e degli animali della fattoria a una vita di assidua preghiera. L'atmosfera familiare era intensamente religiosa e di stampo fortemente patriarcale; il padre, dopo i pasti, leggeva il Vangelo della domenica e un commento su di esso, interrogando con severità i figli sul catechismo. Nel 1847 venne aperta a Goch una scuola media il cui preside convinse i genitori di Arnoldo a iscriverlo. Un anno e mezzo dopo Janssen si trasferì nel seminario minore della diocesi, e nel 1855 cominciò gli studi teologici e filosofici all'istituto universitario Borromeo a Miinster, fondato un anno prima. A diciannove anni, avendo terminato gli studi di filosofia, ma essendo troppo giovane per entrare nel seminario maggiore, andò all'università di Bonn per studiare, con l'idea di fare l'insegnante. Superati gli esami, gli fu offerta una cattedra a Berlino, che rifiutò, tornando a Miinster per il suo corso di teologia. Venne ordinato presbitero nell'agosto del 1861. Trascorse dodici anni insegnando matematica e scienze naturali a Bocholt, nella zona del Basso Reno, in Germania. La partecipazione all'assemblea generale delle organizzazioni cattoliche tedesche e austriache, tenuta ad Innsbruck nel 1867, lo stimolò ad ampliare i suoi orizzonti spirituali, sviluppando l'interesse per il mondo missionario. Si dimise dall'insegnamento e divenne cappellano delle suore orsoline a Kempen. Nel luglio del 1874 pubblicò il primo numero del "Piccolo Messaggero del Sacro Cuore" che riferiva delle missioni interne ed estere ed era anche veicolo per le sue stesse idee. All'epoca, in Germania, non esistevano seminari missionari, proibiti dalle leggi della rivoluzione culturale di Bismarck (Kulturkampf: 1873-1875). Convintosi che se mai cc ne fosse dovuto essere uno sarebbe stato lui stesso a fondarlo, Arnoldo si recò nei Paesi Bassi per cercare un luogo adatto. Dalle autorità ecclesiastiche ricevette un misto di incoraggiamento e dissuasione, ma alla fine riuscì a comprare una vecchia locanda a Steyl, sulle sponde della Mosa, dove nel 1875 stabilì il suo primo seminario. Ben presto si riempì di nove residenti e suo fratello Wilhelm, il cappuccino fra' Juniper scacciato da Miinster, vi si stabilì come cuoco. La comunità assunse come motto Vivai cor Jesu in cordibus hominum, "Il cuore di Gesù possa vivere nei cuori degli uomini!". Era nata così la Società del Divin Verbo. Arnoldo stabilì che il duplice obiettivo del seminario dovesse essere la preparazione dei missionari e la cura delle scienze cristiane, cosa che non soddisfaceva tutti. Comunque, nonostante lo scetticismo e l'opposizione, il progetto attecchì e nel giro di cinque anni il seminario si ingrandì moltissimo. Arnoldo costruiva basandosi sul concetto che il denaro necessario «era già nelle tasche della buona gente, che l'avrebbe donato al momento opportuno!» Questa fede estremamente pratica nella provvidenza divina continuò a portare risultati c quando Arnoldo morì, Steyl era diventato un enorme complesso, ampliato sulla base della convinzione che qualunque cosa fosse necessaria cra possibile intraprenderla. Il seminario divenne una "scuola apostolica", una sorta di scuola superiore missionaria che, al contrario di altri istituti religiosi, accettava allievi da famiglie povere, alloggiandoli gratuitamente. Janssen capì velocemente che il potere della parola stampata era "una spada da utilizzare nella battaglia spirituale", e installò una stampatrice per pubblicare il "Piccolo Messaggero". In effetti la pubblicazione dimostrò di essere il catalizzatore della crescita del seminario, e Arnoldo aggiunse un'altra rivista, chiamata Stadi Gottes (Città di Dio), che ancor oggi è la rivista cattolica per famiglie più diffusa di Germania. La necessità sempre maggiore di un aiuto nei lavori di stampa incoraggiò l'istituzione dei fratelli missionari del Divin Verbo, che nel 1900 superavano ampiamente il numero dei preti dell'ordine, e che furono sempre oggetto di un'attenzione particolare da parte di Arnoldo. Nel 1876 le Suore della Divina Provvidenza furono espulse dalla Germania e vennero a Steyl per prendersi cura delle cucine e della lavanderia. A partire dal 1881 molte giovani donne cominciarono però a richiedere una formazione missionaria e, nel giro di sette anni, era già stata fondata una congregazione di suore missionarie. Nel 1892 Arnoldo consegnò alle prime sedici postulanti l'abito delle suore missionarie dello Spirito Santo. Dopo quattro anni la congregazione si suddivise, facendo nascere un ramo contemplativo: le Serve dello Spirito Santo per l'adorazione perpetua, per «pregare per le grandi necessità del mondo». Dal 1879 Janssen fu in grado di inviare i suoi primi due missionari ad assistere, a Hong Kong, il vescovo Raimoldi, uno dei suoi primi sostenitori: Giovanni Battista von Anzer, successivamente nominato vescovo, e Giuseppe Freinademetz (28 gen.), poi beatificato insieme a Janssen. Altri missionari del Divin Verho si recarono in Estremo Oriente, raggiungendo nel 1881 lo Shantung Meridionale (Cina), che Janssen definì «la grande terra assetata di Gesù»; nel 1892 il Togo, nel 1896 la Papua Nuova Guinea e nel 1907 il Giappone. Alle richieste che venivano dal Sud America si rispose con le missioni in Argentina nel 1889, in Ecuador nel 1893 (successivamente abbandonata), in Brasile nel 1895 e in Cile nel 1900. La convinzione di Janssen che i missionari dovessero essere esperti di scienze naturali ebbe come risultato la pubblicazione della rivista Anthropos, che tratta di linguistica e di etnologia, e la creazione di un istituto corrispondente, i cui membri sono missionari del Divin Verbo sparsi per il mondo. Seguirono altre fondazioni a Roma, dove Arnoldo mandava i preti a studiare teologia, e vicino a Vienna (1889); egli stesso dovette assumere la cittadinanza austriaca. Il governo prussiano, invertendo il Kulturkampf di Bismarck, offrì' a Janssen il diritto esclusivo di fondare seminari missionari e di fare opera missionaria nelle colonie tedesche, il che condusse alla fondazione Santa Croce di Slesia (attualmente nel territorio polacco), di S. Vendelino nella regione della Saar e di S. Ruperto vicino a Salisburgo. Poche settimane prima di morire, Janssen approvò anche l'estensione della missione dell'ordine agli Stati Uniti, con la costruzione del Seminario Missionario di S. Maria a Techny (vicino a Chicago), in Illinois. Per soddisfare l'esigenza di missioni tra la popolazione nera venne aperto il Seminario di Bay St Louis (1922), dal quale uscì più di un centinaio di preti di colore, sei dei quali divennero vescovi. Janssen dichiarò: «Ciò che non si può compiere, non è volontà di Dio». Era sorprendentemente abile nel guidare gli sforzi umani secondo la volontà di Dio e affermava con insistenza che nessuna conquista esteriore poteva essere sorretta senza uno spirito interiore di sacrificio. A settant'anni era ancora sano e attivo, ma nel 1908 cominciò a manifestare una paralisi progressiva e morì pacificamente il 15 gennaio 1909. Già papa Pio X lo chiamò "santo"; l'istruttoria per la sua beatificazione iniziò nel 1933 e papa Pio XII aprì il processo apostolico nel 1943. Insieme a Giuseppe Freinademetz venne beatificato in occasione della domenica missionaria mondiale celebrata il 19 ottobre 1975 e canonizzato il 5 ottobre 2003. MARTIROLOGIO ROMANO. Nel villaggio di Steyl in Olanda, sant’Arnoldo Janssen, sacerdote, che fondò la Società del Verbo Divino per diffondere la fede nelle missioni.
nome Sant' Ita di Killeedy<br /> titolo Vergine<br /> nascita 490 circa, Drum, contea di Waterford, Irlanda<br /> morte 571 circa, Killeedy, contea di Limerick, Irlanda<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> Patrona di diocesi di Limerick, Killeedy, Irlanda<br /> Ita, dopo S. Brigida (1 feb.), è la santa irlandese più famosa e la sua Vita, scritta vari secoli dopo la sua morte, presenta vari elementi comuni a quella di S. Brigida; sono infatti evidenti molte caratteristiche tipiche di questo genere letterario: la regalità della stirpe, la rinuncia a un matrimonio prestigioso, per una vita di verginità e ascetismo. Intorno a lei si raccolsero dei discepoli: pur essendosi votata infatti alla solitudine non poteva impedire alle folle di venire a chiederle consiglio. Nonostante l'aspetto letterario, gli elementi principali della sua biografia sono probabilmente reali e S. Ita è sicuramente esistita. Si dice che appartenesse allo stimato clan di Deisi, che fosse nata a Drum, nell'attuale contea di Waterford, e che il suo nome originale fosse Deirdre. Il nome Ita (che deriva da iota e ha come varianti Ida, Mida, Ite, Ide e altri) significa "assetata di santità" e le fu assegnato perché in lei questa qualità era molto evidente. Suo padre, che le aveva procurato un ricco pretendente, si opponeva alla sua intenzione di fare voto di castità, ma alla fine, in seguito a una visione, acconsentì. lta migrò ai piedi del monte Sliabh Luachra, nella parte sud-occidentale della contea di Limerick, e nel luogo indicatole dagli angeli fu raggiunta da altre donne appartenenti a vari clan della zona. Aprì una scuola per bambini, molti dei quali in futuro sarebbero entrati nel novero dei santi, così che adesso è conosciuta come la "madre adottiva dei santi di Erin". Il più famoso di tutti è S. Brandano di Clonfert ("il Viaggiatore", 16 mag.), anche se la sua cronologia è difficilmente conciliabile con questa. All'epoca la Chiesa celtica teneva nei confronti delle donne un atteggiamento dominante anche in altre comunità e le incoraggiava a fare da guida tanto a uomini quanto a donne. Quello di ha, infatti, potrebbe essere stato un monastero doppio, maschile e femminile, ed essa era celebre perché, senza timore, ascoltava le confidenze spirituali di uomini e donne e assegnava loro penitenze anche molto dure, malgrado la sua indole mite e compassionevole. ha, come badessa, avrebbe potuto esercitare una grande influenza; la Chiesa celtica infatti era principalmente concentrata in zone rurali, e i luoghi isolati erano ricercati come una forma di esilio dal focolare domestico (conformemente all'esempio biblico di Abramo). Per questo le autorità monastiche spesso erano più potenti dei vescovi. ha invece accettò solo quattro acri di terreno dove coltivare ortaggi per la sua comunità e rifiutò ogni offerta di appezzamenti maggiori, perché avrebbe potuto condurre all'esercizio di un potere terreno. La sua leggenda è più una celebrazione di tradizioni legate al luogo che non una biografia, ed essendo ampiamente arricchita da saghe locali utilizza come espediente la personificazione di forze spirituali che, sotto forma di angeli e demoni, le appaiono in sogno, la guidano o cercano di ostacolarla. I suoi sogni e le sue visioni sono descritti in termini di numeri e di elementi simbolici: ha vede tre pietre preziose e un angelo le spiega che rappresentano la Trinità. Anche gli episodi della sua vita sono narrati in termini simili: il fuoco che avvolge la sua camera, senza bruciare né lei né la stanza stessa, rappresenta la potenza e la presenza di Dio; Brandano passa cinque anni con lei, e il cinque, essendo il simbolo della completezza, sta a indicare la profondità della loro amicizia spirituale, o la completezza della formazione da lui raggiunta sotto la sua tutela. Sia la domanda che Brandano le pone, sia la risposta di Ita sono espresse con riferimento al numero tre: «Una volta S. Brandano chiese a ha quali fossero le tre opere più gradite a Dio, e quali le più sgradite. ha rispose: Le tre cose che Dio gradisce maggiormente sono: una vera fede in lui con un cuore puro, una vita semplice con uno spirito grato e la generosità ispirata dalla carità. Le cose che gli dispiacciono di più sono: una bocca che odia la gente, un cuore che brucia di risentimento, e la fiducia nelle ricchezze». Le sue doti di guaritrice sono dimostrate dall'acqua, da lei benedetta mentre era sul letto di morte per confortare S. Aengus. Venne sepolta, "in presenza di moltitudini venute da vicino e lontano", nel monastero da lei costruito e benedetto e che, come accadde a tantissimi conventi irlandesi, fu distrutto probabilmente dagli invasori vichinghi. Al posto del monastero venne costruita una chiesa romanica tra le cui rovine attualmente si trova la sua tomba, che è ancora oggi un luogo di pellegrinaggi e viene spesso adornata di fiori. La sua festa viene celebrata in Irlanda come una commemorazione facoltativa. MARTIROLOGIO ROMANO. Nel monastero di Clúain Credal in Irlanda, santa Ita, vergine, fondatrice di quel monastero.
nome San Francesco Fernandez de Capillas<br /> titolo Domenicano, martire<br /> nome di battesimo Francisco Fernández de Capillas<br /> nascita 14 agosto 1607, Valladolid, Spagna<br /> morte<br /> 15 gennaio 1648, Fujian, Cina<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> Beatificazione 2 maggio 1909<br /> Canonizzazione 1º ottobre 2000 da papa Giovanni Paolo II<br /> Francesco nacque nella provincia di Valladolid in Castiglia; entrato nei domenicani a diciassette anni, si recò come missionario volontario nelle Filippine. Ordinato prete a Manila nel 1631, passò dieci anni lavorando nella zona di Luzon. Era suo grande desiderio raggiungere la missione in Cina dove, all'inizio del XVII secolo, i domenicani avevano seguito i gesuiti. Nel 1642 accompagnò il missionario domenicano Francesco Diaz nella provincia di Fokien, dove apprese la lingua locale e ottenne un discreto successo con la sua predicazione. Venne poi coinvolto nella lotta che seguì la fine della dinastia Ming, i cui mandarini avevano tollerato la cristianità. I nuovi occupanti di Fokien, i Tatari Manchu, le erano invece estremamente ostili. Francesco venne catturato in città, dove era entrato segretamente per assistere un convertito. Accusato di essere una spia delle forze del viceré cinese, venne torturato, processato, trovato colpevole e decapitato il 15 gennaio 1648. Sebbene fosse stato condannato per un'accusa di sedizione, la Santa Sede stabilì che era morto per la causa della fede, e il 2 maggio 1909 venne beatificato. MARTIROLOGIO ROMANO. Nella città di Fu’an nella provincia del Fujian in Cina, san Francesco Fernández de Capillas, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e martire: dopo avere portato il nome di Cristo nelle isole Filippine e nel Fujian, durante la persecuzione dei Tartari fu qui gettato a lungo in carcere e infine decapitato.
nome San Giovanni Calibita<br /> titolo Religioso<br /> nascita V secolo, Roma<br /> morte V secolo, Costantinopoli, Turchia<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> Forse Giovanni è un altro caso di "figura tipica", piuttosto che un personaggio vero e proprio. Si ritiene che abbia lasciato i suoi ricchi genitori per unirsi ai monaci "insonni", fondati da Alessandro Akimete (in greco akoimetoi significa insonne) e chiamati in questo modo perché cantavano a gruppi, senza interruzione, l'Ufficio divino. Dopo sei anni, vestito da mendicante, tornò alla casa dei genitori, dove, senza mai essere riconosciuto, passò il resto della vita, vivendo in una capanna collocata fuori dalla loro porta (capanna in greco si dice kaluby e da questo termine deriva il suo nome). Alla fine rivelò alla madre la propria identità ed essa acconsentì a farlo seppellire dentro la capanna sulla quale, più tardi, venne costruita una chiesa. In un periodo successivo le sue reliquie vennero portate a Roma. La sua leggenda pare derivare, o essere stata confusa, con quella di S. Alessio, S. Onesimo o qualcun altro ancora. MARTIROLOGIO ROMANO. A Costantinopoli, san Giovanni Calibíta: secondo la tradizione abitò per qualche tempo in un luogo appartato della casa paterna e poi in un tugurio, chiamato “kalybe”, tutto dedito alla contemplazione e nascosto alla vista degli stessi genitori, dai quali dopo la sua morte fu riconosciuto soltanto grazie a un codice aureo dei Vangeli, che essi gli avevano donato.
nome Beato Nicola Gross<br /> titolo Martire<br /> nome di battesimo Nikolaus Gross<br /> nascita 30 settembre 1898, Niederweningern, Essen, Germania<br /> morte 15 gennaio 1945, Germania<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> Nato il 30 settembre 1898 nei pressi di Essen, lavorò come minatore. Nel 1917 entrò a far parte dell'associazione sindacale dei minatori cristiani e a 22 anni divenne segretario della sezione giovanile. Nel frattempo aveva sposato Elisabeth Koch ed era diventato redattore di una rivista cattolica dalle cui pagine esprimeva la sua avversione nei confronti del nazismo. Pur con tutto il suo amore per la famiglia Gross rimase attento ai problemi sociali e a partire dal 1940 dovette subire interrogatori e perquisizioni da parte della polizia nazista. Dopo il fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944, Gross, che non aveva partecipato direttamente alla sua preparazione ed esecuzione, venne arrestato il 12 agosto 1944. Il 15 gennaio 1945 venne pronunciata la sentenza di morte. È stato beatificato il 7 ottobre 2001.<br /> MARTIROLOGIO ROMANO. A Berlino in Germania, beato Nicola Gross, padre di famiglia e martire: attivamente impegnato nell’ambito sociale, per non operare contro i comandamenti di Dio si oppose con ogni mezzo a un empio regime avverso all’umana dignità e alla fede; per questo fu gettato in carcere e, attraverso il supplizio dell’impiccagione, divenne partecipe della vittoria di Cristo.<br />
nome San Bonito di Clermont<br /> titolo Vescovo<br /> nascita 623 circa, Alvernia, Francia<br /> morte 706 circa, Lione, Francia<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> Canonizzazionepre canonizzazione<br /> Patrono di Bonito<br /> Bonito fa parte di quella costellazione di santi, straordinariamente numerosa, che circonda la nascita della dinastia merovingia in Gallia. Clodoveo, dopo la morte di suo padre Dagoberto I, regnava sulla maggior parte di quella che oggi è la Francia, mentre suo fratello S. Sigisherto (1 feb.) governava sulla parte orientale, chiamata Austrasia. Bonito (Bonet), che era il cancelliere di Clodoveo, fu, a quanto pare, ampiamente responsabile del buon ordine che regnò nel suo reame. Nel 677 venne nominato governatore di Marsiglia, che amministrò con analoghi risultati; e suo fratello maggiore (un altro santo locale), prima di morire nel 689 si premurò che fosse lui a succedergli come vescovo di Clermont, in Alvernia. Dopo alcuni anni Bonito iniziò però a nutrire dubbi sulla regolarità canonica della propria elezione, quindi, dopo aver consultato S. Tillo (7 gen.), decise di dimettersi ritirandosi nell'abbazia di Manglieu. Dopo un pellegrinaggio a Roma morì a Lione nel 706. È protettore: dei fabbricanti di stoviglie (a motivo della sua vecchia carica di coppiere reale). MARTIROLOGIO ROMANO. A Lione in Francia, transito di san Bonito, vescovo di Clermont-Ferrand, che, da prefetto di Marsiglia fu elevato all’episcopato dopo suo fratello sant’Avíto; lasciato tale incarico dieci anni più tardi, visse nel cenobio di Manglieu; morì a Lione, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma.
nome Beato Pietro di Castelnau<br /> titolo Sacerdote certosino, martire<br /> nascita 1170 circa, Montpellier, Francia<br /> morte 15 gennaio 1208, Saint-Gilles-les-Boucheries, Francia<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> Pietro nacque vicino a Montpellier, allora un importante centro regionale con una nascente università specializzata in medicina, in Linguadoca (Francia meridionale). Si sa che apparteneva al clero dal 1199, anno in cui lo troviamo arcidiacono di Maguelone. Un anno o due dopo divenne un monaco cistercense nell'abbazia di Fontfroide. All'epoca la Linguadoca era sotto la morsa dell'eresia catara o albigese (nome derivante dalla città di Albi, a una novantina di chilometri a ovest di Montpellier). Il catarismo esercitava una forte attrazione, spesso attribuita alla dottrina morale che predicava («per il puro ogni cosa è pura»). Apparentemente semplice, la sua dottrina in realtà cra molto più insidiosa: poggiando le sue basi nel dualismo manicheo, che un tempo aveva sedotto anche S. Agostino, essa rappresentava, almeno in parte, la risposta a un'esigenza di una vita più pura di quella condotta dai ricchi e dai potenti nella Chiesa e nello Stato. Alla fine del XII secolo essa era ormai ampiamente la religione della Linguadoca, della Provenza e dell'Italia settentrionale. La sua repressione diede origine all'Inquisizione, che inizialmente dipendeva dai vescovi, i quali consegnavano gli ecclesiastici e i monaci sospettati di eresia al "braccio secolare". Papa Innocenzo III (1198-1216) introdusse il sistema di affidare ai legati pontifici il potere giudiziario e l'autorità di condannare all'esilio e alla confisca dei beni. Nel 1204 il papa costituì suoi legati nel meridione Pietro di Castelnau, suo fratello Raul, monaco, e l'abate di Citeaux, Arnaud-Amaury. La loro prima predicazione, che metteva l'accento sull'autorità del papa e sul potere della Chiesa, non ebbe un gran successo. Nel 1206 S. Domenico (8 ago.) si recò dal papa e gli presentò proposte concrete per una campagna più efficace: utilizzare i mezzi che gli eretici stessi stavano impiegando con successo, per esempio una predicazione colta e uno stile di vita evangelico. Sempre nel 1206 Domenico si incontrò a Montpellier con Pietro e Raul e li persuase a rinunciare allo sfarzo di cui erano circondati e a essere un esempio di vita evangelica. Questo cambiamento ebbe un effetto immediato e decisivo. Il conte di Tolosa, Raimondo VI, continuò tuttavia a opporsi alle azioni contro gli eretici e ordinò l'assassinio di Pietro, che fu consumato il 15 gennaio 1208 a Saint-Gilles sul Rodano, con un colpo di lancia. Questo fatto suscitò una tale indignazione in tutta la cristianità occidentale che il papa fu spinto a ricorrere a mezzi militari e a bandire una crociata contro gli albigesi, con conseguenze terribili e con spargimenti di sangue che si trascinarono per tutto il m secolo. Pietro fu presto venerato come martire e i suoi resti furono posti in un reliquiario nell'abbazia di Saint-Gilles. MARTIROLOGIO ROMANO. A Saint-Gilles-les-Boucheries nella Provenza, in Francia, beato Pietro da Chateau-Neuf, sacerdote e martire: entrato nel monastero cistercense di Fontfroide, fu incaricato da papa Innocenzo III di predicare la pace e di insegnare la fede cristiana in Provenza; morì trafitto con la lancia da alcuni eretici.
nome San Romedio<br /> titolo Eremita<br /> ricorrenza 15 gennaio<br /> San Romedio nacque a Innsbruck, nel Tirolo, nel IV secolo da una nobile e ricca famiglia austriaca; la sua infanzia trascorre negli agi e con un'educazione di stampo cristiano. Una volta cresciuto Romedio compie una scelta coraggiosa: egli rinunciò alla sua eredità destinandola a chi ne aveva bisogno per vivere da povero eremita e designare la sua esistenza alla preghiera e alla contemplazione del Signore. Durante un pellegrinaggio a Roma per conoscere il Papa, incontrò a Trento il Vescovo della città Vigilio, e tra loro nacque una profonda amicizia. È al ritorno da questo viaggio che, giunto nella Val di Non, a Sanzeno, iniziò il suo eremo, in cima ad una rupe a 70 metri di altezza, dove si ritirò dentro una grotta e morì nel 400 o 405. Fu qui seppellito. Diverse sono le storie intorno a questo Santo, dalle guarigioni miracolose al prodigio dell'acqua fatta scaturire da una roccia, ma la leggenda narra anche una incredibile storia che riguarda un orso, che vediamo ancora oggi accanto a lui nelle raffigurazioni che lo rappresentano. La storia narra che un giorno Romedio volesse andare a trovare Vigilio, il Vescovo suo amico e consigliere spirituale. I suoi discepoli si recarono a prendere il suo cavallo e lo trovarono sbranato da un orso, che ancora se ne stava cibando. Il Santo senza scomporsi si avvicinò alla bestia feroce e gli intimò di farsi imbrigliare e di portarlo a Trento. E così avvenne. Nell'anno Mille i suoi devoti fedeli costruirono la prima chiesa a lui dedicata nella grotta dove visse, e qui sono custodite le spoglie di San Romedio. In seguito furono aggiunte altre quattro chiese sovrapposte che formano il Santuario a lui dedicato, collegate tra loro da oltre 100 scalini. MARTIROLOGIO ROMANO. Nella Val di Non in Trentino, san Romedio, anacoreta, che, donati i suoi beni alla Chiesa, condusse vita di penitenza nell’eremo che ancora oggi porta il suo nome.