@Namskot
Aristotele, sul giusto politico
Nei capitoli centrali del quinto libro dell’Etica Nicomachea Aristotele riserva alcuni
paragrafi (1134a 25-1135a 8) alla definizione delle qualità del giusto politico (τὸ
πολιτικὸν δίκαιον). Del giusto politico Aristotele “cerca” il carattere che ne fa un oggetto
di studio proprio della scienza politica. Perciò la sua riflessione si sofferma sulle
specificazioni del giusto politico che è conveniente considerare nell’ambito di una
ricerca concernente il “sapere pratico”, mentre sorvola sulle parti del giusto politico
meno rilevanti nel contesto di una ricerca di questo tipo. Poiché la scienza politica
studia tipicamente gli artefatti che sono il prodotto di determinazioni, scelte, deliberazioni
e che non esistono “per sé, al modo di un ente o di una sostanza”, è naturale
che Aristotele imposti la sua trattazione del giusto politico a partire dallo studio delle
azioni compiute (praxeis), che sono molte e diverse, invece che dalla considerazione
del fine (telos), che è uno solo. Il fine universale al quale tendono le comunità politiche
–la felicità dei cittadini– non è infatti un oggetto di studio proprio della scienza
politica in quanto su di esso non si delibera (EN 1112b 34): come “un medico non
delibera se guarire, né un retore se persuadere, né un politico se fare buone leggi” ma
“posto il fine, indagano come lo si realizza” (EN 1112b 13-16), anche il ricercatore che studia i prodotti della politica vorrà capire –una volta posto il fine che è il bene
della comunità politica– come esso si realizza.
A fare del giusto politico un oggetto di studio proprio della scienza politica è il
fatto che questo concerne le azioni compiute, gli atti “particolari” nei loro rapporti
con il fine “universale”. Ed è perciò la considerazione della distinzione tra le azioni
della giustizia, che in quanto compiute sono molte e particolari, e il loro fine ultimo
–che in quanto universale è uno e ovunque lo stesso– a chiudere la sezione dedicata
da Aristotele alla definizione del giusto politico (EN 1135a 6-8). Questa considerazione
conclusiva dà senso a una trattazione articolata dei caratteri costitutivi del giusto
politico che vengono definiti e messi in rilievo attraverso la considerazione delle sue
specificazioni o parti ovvero, secondo l’ordine espositivo, il giusto in senso “assoluto”
(τὸ ἁπλῶς δίκαιον), quello “naturale” (τὸ φυσικὸν δίκαιον) e quello “legale” (τὸ
νομικὸν δίκαιον).
Attraverso le riflessioni che la ‘scomposizione’ del giusto politico sviluppa e ordina,
Aristotele riconosce il suo carattere essenziale: il fatto che il fondamento del
giusto politico è rappresentato da convenzioni stabilite secondo un principio di convenienza intelligibile e relativamente determinato all’interno di una data comunità
politica.
A rivelare l’essenza del giusto politico concorre una serie di definizioni che Aristotele
riferisce ora al giusto politico in tutte le sue specificazioni (assoluto, naturale
e legale) ora soltanto alla sua “parte” più intelligibile, il giusto legale. Queste sono
le definizioni: il fondamento del giusto politico è la determinazione (κρίσις) collettiva
dell’idea di giusto decisa in una data comunità politica (1134a 25-33); il giusto
politico dipende dall’opinione, dal fatto cioè che una cosa può sembrare (δοκεῖν) in
un modo o nell’altro (1134b 20); il giusto politico esiste solo quando viene stabilito
ovvero posto in modo formale (ὅταν δὲ θῶνται) e dunque se non è stabilito non esiste
(1134b 21). Una volta che il giusto politico diviene intelligibile, quando cioè si è definita
una determinazione collettiva al riguardo e si sono realizzati degli atti particolari
conformi a quella determinazione di giustizia , esso funziona come le unità
di misura negli scambi: rivela quali determinazioni ne siano a fondamento. Per la
sua funzione di “indicatore” delle decisioni (κρίσεις) attraverso le quali le comunità
politiche hanno definito e realizzato una certa idea di giustizia, il giusto politico è assimilabile alla politeia che, laddove assume una forma storica intelligibile, è sempre
diversa, mentre rimane unica e la stessa quando è nella sua forma ideale e conforme
a natura (1134b 35-1135a 6). In definitiva, il carattere essenziale del giusto politico
è il fatto di costituire il prodotto delle scelte dell’uomo che vive in società, di essere
un artefatto del raziocinio umano, come sono le leggi e la politeia – s’intende, quella
che si dà nella storia. Ora, i paragrafi riservati da Aristotele alla definizione delle qualità del giusto politico (1134a 25-1135a 8) sono da sempre oggetto del massimo impegno critico. Lo stesso autore dei Magna Moralia pseudo aristotelici –forse il più antico dei “commentatori” di Aristotele– ha riservato alcuni paragrafi del primo libro (MM 1194b
30-1195a 7) alla spiegazione degli esempi impiegati nell’Etica Nicomachea per definire
il carattere proprio del giusto politico, particolarmente rispetto al suo rapporto
con il giusto naturale. Quest’ultimo del resto è il tema che maggiormente ha occupato
la riflessione di alcuni tra i massimi interpreti del pensiero aristotelico da Tommaso
d’Aquino a Marsilio da Padova, da Strauss a Gadamer. Tale riflessione, soprattutto
impegnata a valutare la possibilità di riconoscere in Aristotele un teorico del diritto
naturale, ha determinato l’avvio di un ampio dibattito del quale è impossibile dare
conto in modo esaustivo. Basti qui osservare che ad animare quella discussione sono
essenzialmente due problemi: il primo posto dall’esigenza di comprendere le qualità
del giusto naturale come componente del giusto politico – sia in rapporto ai temi della
variabilità e stabilità sia, più in generale, nell’ambito del pensiero giuridico di Aristotele;
il secondo determinato dalla difficoltà di interpretare la funzione che assume la
costituzione ideale, quella secondo natura, nel quadro più ampio della riflessione aristotelica
sulle costituzioni (si tratta in questo caso di dare un senso alla comparazione
tra giustizia e politeia in rapporto alle finalità della scienza politica).