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I santi di oggi 19 febbraio:
nome San Mansueto di Milano- titolo Arcivescovo- nascita VII secolo, Milano- morte VII secolo, Milano- ricorrenza 19 febbraio, 2 settembre nella liturgia ambrosiana- Canonizzazione pre canonizzazione- Attributi bastone pastorale e mitria- Patrono di Milano- Incarichi ricoperti Arcivescovo di Milano- San Mansueto, vissuto nel VII secolo, ha legato il suo nome a quello d'una eresia oggi quasi completamente, dimenticata, cioè all'eresia dei cosiddetti «monoteliti». Non ch'egli fosse eretico. Tutt'altro. San Mansueto fu contrario al «monotelismo» e scrisse un libro proprio per combatterlo. La storia delle eresie è molto complicata, perché l'errore fa sempre, come si potrebbe dire con una espressione familiare, a nascondino. Si presenta celatamente; è insidioso, contraddittorio e serpeggiante. Ci sono però alcune tendenze costanti, e una di queste tendenze ereticali è quella dei «monofisiti», che mira a confondere le due nature di Gesù, il quale, secondo la dottrina cattolica, è vero Dio e vero uomo. Il tentativo degli eretici consiste principalmente nel fare di Gesù o un solo uomo o un solo Dio. Le conseguenze di un simile errore, sia in un senso come in un altro, sarebbero incalcolabili, nella vita della Chiesa e degli uomini. Perciò la Chiesa aveva già condannato i «monofisiti», proclamando Gesù vero Dio e vero uomo. Ma ecco che la tendenza monofisita rimetteva le corna con il «monotelismo», il quale, pur rispettando la distinzione di uomo e di Dio, asseriva che in Gesù c'era stata un'unica volontà. Sembrava, in apparenza, un'ammissione innocua, ma tale non apparve a San Mansueto, romano di nascita e Vescovo di Milano. La sua grande pietà e la sua altrettanto grande dottrina gli avevano ottenuto la cattedra episcopale di Milano, verso il 670. E a Milano egli radunò un Concilio, per discutere e sbendare la nuova insidiosa eresia. Fu poi molto attivo ed ascoltato nel Concilio convocato a Roma dal Papa Agatone, nel 680, e dal quale il «monotelismo» uscì condannato. Come abbiamo detto, egli scrisse anche un libro contro la subdola eresia, tanto più difficile a combattersi, quanto più si presentava sottile, trattando, non delle due nature, ma dell'unica volontà. San Mansueto faceva onore al suo nome, quando si trattava di peccatori dalla volontà debole o di aberranti dalla mente vacillante. Ma contro l'insidioso e insinuante errore fu il contrario di mansueto. Battagliero, intransigente, tenace, inflessibile, sostenne la dottrina rigidamente cattolica, conquistandosi fama di cristiano integerrimo e di pastore vigilantissimo. Morì subito dopo il Concilio di Roma, dal quale si può dire che egli uscisse canonizzato, come l'errore monotelita ne usciva condannato. MARTIROLOGIO ROMANO. A Milano, san Mansueto, vescovo, che combattè strenuamente contro l’eresia monotelita.
nome Beato Corrado Confalonieri- titolo Eremita, Terziario francescano, pellegrino ed eremita- nome di battesimo Corrado Confalonieri- nascita 1290, Calendasco, Piacenza- morte 19 febbraio 1351, Noto, Sicilia- ricorrenza 19 febbraio- Beatificazione 12 luglio 1515 da papa Leone X- Canonizzazione 12 settembre 1625 da papa Urbano VIII- Santuario principale Cattedrale di Noto- Attributi teschio, grotta- Patrono di Calendasco, Noto- Egli era un nobile del Trecento, sposo felice di una gentildonna sua pari, e aveva un debole per la caccia. Un giorno, lungo la riva del Po giallastro, un ghiotto capo di selvaggina, ch'egli inseguiva a cavallo, circondato dai cani e dai bracconieri, cercò scampo dentro una macchia impenetrabile. Dominato dall'impazienza e dal dispetto, l'appassionato cacciatore impartì un ordine imprudente: quello di dar fuoco alla macchia per stanare l'animale. Era estate, e nella pianura riarsa dal sole, gli uomini di Corrado non furono in grado di controllare le fiamme da loro stessi suscitate. Si sviluppò un incendio che, con l'aiuto del vento, distrusse le messi e le cascine vicine. Corrado e i suoi uomini rientrarono in città senza esser notati. Nessuno era stato testimone del loro involontario malestro. Il rimorso e la paura tennero suggellate le bocche. Ma i proprietari e i contadini danneggiati protestarono presso il governatore della città, che ordinò un'inchiesta. Fu allora arrestato un vagabondo, trovato nei boschi, vicino al luogo dell'incendio. Le prove a suo carico parvero sufficienti, ed egli venne senz'altro condannato a morte. Ma sulla piazza della città, poco prima che avesse luogo l'esecuzione, Corrado non poté resistere all'impulso della propria coscienza, che gl'imponeva di scagionare l'innocente e di accusarsi colpevole al suo posto. La sua inaspettata confessione chiarì come erano andate le cose. Poiché non si trattava di dolo, ma di responsabilità colposa, dovuta ad una imprudenza, il nobile piacentino venne condannato a risarcire tutti i danni arrecati dalle fiamme. Corrado era ricco, ma l'incendio era stato rovinoso. Quando l'ultimo danneggiato fu risarcito, egli aveva finito non solo tutti i suoi beni ma anche quelli della moglie. I due sposi ridotti all'indigenza non si angustiarono per questo. Per ambedue quel drammatico avvenimento aveva illuminato di nuova luce tutta la loro vita, come un segno del cielo. La donna rivestì così l'abito delle poverissime figlie di Santa Chiara, entrando nel convento di Piacenza. Corrado si unì ad alcuni devoti eremiti che vivevano fuor di città, sotto la Regola del Terz'Ordine francescano. I meriti dell'incendiario fattosi penitente furono così luminosi, che molti ammiratori presero a visitarlo e a seguirlo. Per questo Corrado preferì allontanarsi dai luoghi natali, incamminandosi verso Roma. Ma non si fermò presso le tombe degli Apostoli. Proseguì il suo lungo viaggio percorrendo tutta la penisola e passando in Sicilia. Qui si fermò, nella valle di Noto, non lontano da Siracusa, in vista del ceruleo mare Ionio, dove visse trent'anni prima presso 'un ospedale poi come eremita sui monti. E anche qui volò alta la fama della sua santità, e soprattutto l'eco delle durissime privazioni di quel devoto penitente. Ogni venerdì egli scendeva a Noto, e, dopo essersi confessato, pregava a lungo davanti ad un celebre crocifisso che si conserva nella cattedrale della città. In quella stessa cattedrale furono riposte le sue reliquie, dopo la morte avvenuta nel 1351, 2 i cittadini di Noto onorarono con culto vivissimo il miracoloso eremita piacentino. Ottennero anche, dal Papa Leone X, di poterlo invocare come secondo Patrono della città, subito dopo il grande San Nicola, al quale è dedicata la chiesa che ospita i venerati resti del Beato Corrado, nobile di Piacenza e primo cittadino di Noto.<br /> MARTIROLOGIO ROMANO. A Noto in Sicilia, beato Corrado Confalonieri da Piacenza, eremita del Terz’Ordine di San Francesco, che, messi da parte gli svaghi mondani, praticò per circa quarant’anni un severissimo tenore di vita nell’orazione continua e nella penitenza.
nome San Barbato di Benevento- titolo Vescovo- nascita 612, Benevento- morte 19 febbraio 682, Benevento- ricorrenza 19 febbraio, 4 marzo- Attributi bastone pastorale- Patrono di Casalattico, Castelvenere, Cicciano, San Barbato e Valle dell'Angelo- Le notizie su Barbato derivano da una Vita del IX secolo, scritta quindi circa duecento anni dopo la sua morte, che lo descrive come originario di Benevento. Tra la fine del vi secolo e l'inizio del VII, i longobardi, popolo dell'Europa centrale che aveva abbracciato l'arianesimo, invasero l'Italia, impossessandosi di grandi porzioni di territorio. Fondando un ducato in qualche modo legato al loro regno settentrionale, si spinsero a sud fino a Benevento devastando le diocesi. Tra il 660 e il 670, tuttavia, alcuni capi longobardi cominciarono ad accogliere alcuni elementi della dottrina cattolica. Grimoaldo, duca di Benevento, approfittando di una disputa tra i figli del defunto re Ariperto, si impadronì del trono: devoto all'arcangelo Michele, al quale era dedicato anche un santuario sul monte Gargano nel ducato di Benevento, lo proclamò patrono del suo regno e della nazione. Barbato si era frattanto reso conto che anche i presunti cristiani erano in realtà schiavi della superstizione e che era assai diffusa la venerazione di una vipera d'oro; fra costoro vi era anche Romualdo, figlio di Grimoaldo, posto a capo del ducato quando Grimoaldo si era proclamato re. Barbato denunciò incessantemente tali pratiche illecite, pregando e digiunando in continuazione per la conversione del popolo, senza tuttavia ottenere grandi risultati. Solo nel 663, quando Grimoaldo fermò l'invasione da oriente di Costanzo II e attribuì la vittoria all'intervento dell'arcangelo Michele, Barbato (che aveva preannunciato il successo) riuscì finalmente a convincere la gente: fece fondere il serpente d'oro per farne un calice e abbatté un albero sacro utilizzato in riti idolatri. Il vescovo di Benevento, Ildebrando, era morto mentre Costanzo cingeva d'assedio la città e Barbato fu eletto al suo posto. In questa veste riuscì a eliminare i riti pagani praticati nel ducato, partecipando in questa veste anche al VI concilio di Costantinopoli nel 680. Morì a settant'anni nel 682. MARTIROLOGIO ROMANO. Presso Benevento, san Barbato, vescovo, che si tramanda abbia convertito i Longobardi e il loro capo a Cristo.
nome Beata Elisabetta Picenardi- titolo Vergine- nome di battesimo Elisabetta Picenardi- nascita 1428 circa, Mantova- morte 11 febbraio 1468, Mantova- ricorrenza 19 febbraio- Beatificazione 10 novembre 1804 da papa Pio VII- La beata Elisabetta Picenardi, di origine cremonese, nacque in Mantova dal Marchese Leonardo, nobile cremonese e da Paola Nuvoloni, illustre matrona mantovana, l'anno 1428. Fin dalla prima fanciullezza, educata dalla piissima genitrice nei doveri della professione cristiana e dal padre, coltissimo nelle lettere latine e nello studio della Sacra Scrittura, fece tali progressi nella pietà e nelle virtù, che, dedicatasi tutta a Dio col voto della perfetta castità e rifiutate le offerte di cospicui maritaggi, si iscrisse tra le vergini Mantellate del terz'Ordine dei Servi di Maria. Il ritiro, la preghiera, le penitenze la condussero in breve tempo a sl alto grado di santità, che divenne l'ammirazione di tutti i suoi concittadini. Disprezzando ogni agio e comodità della sua alta condizione sociale, fuggì a tutto potere gli spassi e le feste mondane. Le sue delizie Elisabetta le trovava nel meditare la Passione di Gesù Cristo e specialmente i dolori sofferti dalla Madonna ai piedi della Croce: i suoi luoghi preferiti erano esclusivamente la solitaria sua stanzetta e la Chiesa di S. Barnaba, ufficiata dai Padri Serviti. La sua preghiera era, si può dire, continua: oltre all'orazione mentale, ella recitava quotidianamente l'Ufficio Divino. Il suo cuore era penetrato da una fede vivissima negli augusti misteri della nostra santa Religione, da una speranza incrollabile di conseguire l'eterna sa' lute e da una carità oltremodo ardente verso Dio e verso il prossimo. Tutto ciò e le altre doti che si addicono alla più perfetta santità prendevano in Elisabetta uno splendore soave e tutto particolare per la profonda umiltà del suo cuore: ella si reputava la più grande peccatrice del mondo e tormentava il suo corpo verginale con lunghe vigilie, severi digiuni ed austere penitenze: portava sempre in dosso ,un aspro cilicio e, sebbene conducesse una vita più angelica che umana, si accostava quasi ogni giorno alla sacramentale confessione, dopo la quale, con la piena licenza del suo prudente direttore di spirito, riceveva ii santissimo sacramento dell'Eucaristia. Nell'offrire per sè a Dio, unico suo bene, le sue fervorose preghiere, non dimenticava mai di pregare per la conversione dei peccatori, per la perseveranza dei giusti e pel trionfo della Chiesa e del Sommo Pontefice. Così, coll'esempio di una vita illibata e penitente, ispirava in tutti l'amore di Dio e l'orrore per la colpa. Ben presto la fama della sua crescente santità si diffuse anche fuori di Mantova e in luoghi lontani. Allora si vide un buon numero di giovanette di alti natali venire a lei per mettersi sotto la sua direzione. Benché riluttante, la Beata si mise di buon grado all'opera e le formò così bene alla pietà e alla vita di perfezione, che tutte abbracciarono, il terzo Ordine dei Serviti. Sino all'ultimo dei suoi giorni conservò incontaminato il giglio della purezza non solo ma è costante opinione dei suoi biografi, ch'ella non abbia mai commesso in tutta la sua vita nessun peccato mortale. Ma la giornata di questa impareggiabile religiosa e maestra di vita ascetica non doveva essere lunga. Toccava ella appena i quarant'anni quando fu sorpresa da una fierissima malattia, che soffrì con pazienza meravigliosa: placida e lieta in mezzo alle celesti armonie di un coro di Angeli, confortata dalla visione di Cristo suo Sposo e della grande Madre Maria, cui professò sempre una devozione filiale, dopo aver ricevuto con edificante pietà tutti i conforti di nostra santa fede, soavemente rese l'anima a Dio il dì 19 febbraio 1468. La sua preziosa salma fu collocata in una cappella della chiesa di S. Barnaba, che prima chiamavasi di S. Bernardino e ben presto fu. intitolata alla beata Picenardi. Soppresso poi, nel 1798, il monastero dei Serviti a Mantova e profanatone il tempio, i fratelli Picenardi di Cremona salvarono la sacra urna che conteneva il corpo, della Beata, trasportandola con magnifica pompa nel pubblico oratorio della loro villa a Torre de' Picenardi, dove ogni anno, nell'ultima domenica di settembre, si celebra in suo onore una devota festa. MARTIROLOGIO ROMANO. A Mantova, beata Elisabetta Picenardi, vergine, che, indossato l’abito dell’Ordine dei Servi di Maria, condusse nella casa paterna una vita consacrata a Dio, accostandosi assiduamente alla santa comunione e attendendo con impegno alla Liturgia delle Ore e alla meditazione delle Scritture, devotissima della Vergine Maria.
nome San Quodvultdeus- titolo Vescovo di Cartagine- nascita IV secolo, Cartagine, Tunisia- Consacrato vescovo 435 circa- morte 454, Napoli- ricorrenza 19 febbraio- Canonizzazione precanonizzazione- Attributi Bastone pastorale- Patrono di profughi per mare- Incarichi ricoperti Vescovo di Cartagine- Quodvultdeus fu vescovo di Cartagine negli anni che seguirono la morte di S. Agostino (t 430; 28 ago.). Per le province romane del Nord Africa stava allora per terminare un periodo di relativa tranquillità in campo sia politico che teologico; la maggioranza della popolazione si era convertita al cristianesimo e i donatisti, nonostante l'influenza che ancora esercitavano, erano stati messi "alle corde" dalla pressione dello stato e dalle argomentazioni teologiche di Agostino. Nel 429 la situazione cambiò drasticamente: circa ottomila vandali al seguito di Genserico, sostenitori dell'arianesimo, dal sud della Spagna invasero Tangeri (Marocco), dando così inizio a un secolo di persecuzioni per la Chiesa del Nord Africa. Siccome i vandali erano noti per la loro peculiare avversità al clero cattolico, la maggioranza dei chierici prese in considerazione l'ipotesi della fuga: Agostino cercò di incoraggiarli a rimanere sottolineando il dovere della perseveranza accanto alle proprie comunità, ma le sue parole caddero spesso nel vuoto. I contadini fuggirono dalle campagne nelle grandi città (ad esempio Cartagine), che erano in grado di resistere più a lungo. Quodvultdeus, già succeduto a Capreolo come vescovo di Cartagine, criticò violentemente i cristiani che si lasciavano attrarre più dal circo che dagli esempi offerti dalle martiri Perpetua e Felicita (6 mar.) e da coloro che nelle campagne stavano anche allora subendo il martirio a causa della fede; era questo il motivo, ammoniva gli allarmati ascoltatori, delle calamità che stavano colpendo il Nord Africa quale giusta punizione di Dio. Nel 439 la città cadde in potere dei vandali, con enormi perdite di vite umane. Davanti al netto rifiuto del vescovo di aderire all'arianesimo, a Quodvultdeus fu risparmiata la vita ma comminata la pena dell'esilio e, insieme alla maggior parte del suo clero, dovette abbandonare la patria. Imbarcati su decrepite navi prive di remi e di vela, gli esuli riuscirono in qualche modo a raggiungere Napoli e qui egli morì dopo poco tempo. Quodvultdeus è ricordato 1'8 gennaio nel calendario di Cartagine, il 19 febbraio nel Martirologio Romano. MARTIROLOGIO ROMANO. A Napoli, deposizione di san Quodvultdeus, vescovo di Cartagine, che mandato in esilio insieme al suo clero dal re ariano Genserico e messo su navi in disuso senza vele né remi, contro ogni speranza approdò a Napoli, dove morì confessore della fede.
nome Beato Alvaro da Cordova- titolo frate Domenicano- nascita 1350 circa, Zamora, Spagna- morte 1420 circa, Cordova, Spagna- ricorrenza 19 febbraio- Beatificazione 22 settembre 1741 da papa Benedetto XIV (conferma del culto)- Alvaro è una delle figure di spicco della riforma dell'ordine domenicano in Spagna. Come luogo di nascita vengono proposte, dalle diverse fonti, sia Lisbona che Cordova, dove egli trascorse gran parte della sua vita; la nuova versione del Martirologio Romano lo definisce «di Zamora» (nella Castiglia-León sul fiume Duero, a nord di Salamanca) ed è questa l'indicazione che anche qui seguiamo. Non si conosce neanche la data precisa della sua nascita, che va probabilmente collocata intorno al 1350. Riguardo alla data di morte si è incerti tra due possibilità: il 1420 (data confutata però da prove di una sua attività successiva) e intorno al 1430. Entrato nel convento domenicano di Cordova nel 1368, si attirò grande fama predicando in Andalusia e in Italia. Qui deve aver incontrato Raimondo da Capua (t 1399; 5 ott.), che diventò il maggior ispiratore del suo programma di riforma. Fu confessore e consigliere di Caterina (figlia di Giovanni di Gaunt) quando morì suo marito, il re Enrico II di Castiglia, e collaborò con lei nell'educazione del figlio (il futuro re Giovanni II). Alvaro riformò la vita di corte, ma dissensi politici lo costrinsero a lasciarla e a riprendere l'attività di predicatore. Il suo progetto di un ordine riformato che seguisse fedelmente la regola di S. Domenico prese gradualmente forma in una regione montana non lontana da Cordova, dove costruì il convento noto come Scala Coeli (Scala del cielo), che divenne un insigne centro di devozione e di erudizione. Alvaro ebbe un ruolo determinante nell'impedire al casato di Castiglia di sostenere Pietro de Luna, candidato avignonese al papato. Costui infatti, con l'appoggio del re di Aragona, si era autoproclamato papa col nome di Benedetto XIII opponendosi frontalmente ai pretendenti romani (Bonifacio IX, Innocenzo VII e Gregorio XII) e lo scisma si risolse solo quando Benedetto XIII e Gregorio XII furono dichiarati scismatici dall'autoconvocato concilio di Pisa (1409). Alvaro continuò a predicare, catechizzare e insegnare fino in tarda età. Le sue pratiche ascetiche divennero più austere: si racconta che trascorresse la maggior parte delle notti in preghiera dopo essere andato per molti giorni a predicare e a mendicare (la sua comunità viveva esclusivamente di elemosine). Un quadro conservato a Cordova lo raffigura inginocchiato davanti alla cappella della Madonna della Pietà all'interno del convento, con le spalle sanguinanti per la pratica della flagellazione, attorniato da angeli che tolgono i sassi dal suo cammino. Fu anche costruttore di edicole raffiguranti scene della passione del Signore: questo fatto lo potrebbe legare all'origine in Occidente della devozione della Via Crucis ma essa in realtà si era già diffusa sulla scia dei pellegrinaggi a Gerusalemme, favoriti nel xiv secolo dalle indulgenze che vi erano connesse. Morì in età avanzata; il suo culto fu approvato nel 1741. MARTIROLOGIO ROMANO. A Córdova nell’Andalusia in Spagna, commemorazione del beato Alvaro, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori, insigne per la predicazione e la contemplazione della Passione di Cristo.
nome Beato Giuseppe Zaplata- titolo Religioso e martire- nome di battesimo Józef Zapłata- nascita 5 marzo 1904, Jerka, Polonia- morte 19 febbraio 1945, Dachau, Germania- ricorrenza 19 febbraio- Nacque a Jerka vicino a Koscian in Polonia da una famiglia di agricoltori. I limitati mezzi della sua famiglia non gli permettevano altro che fare gli studi elementari. Appena terminò il servizio militare, entrò nella Congregazione dei Fratelli del Santissimo Cuore di Gesù, emettendo la prima professione a Poznam l'8 settembre 1928 e dieci anni dopo, il 10 marzo 1938, la professione solenne. Servì nella curia episcopale di Poznam sotto il Cardinale Primate Augusto Hlond. Si recò quindi a Leopoli, dove lavorò come sacrestano nella chiesa di Santa Elisabetta e allo stesso tempo come superiore della sua comunità religiosa. Occupata Poznam dai nazisti, fu arrestato, e nell'agosto 1940 fu mandato al campo di concentramento di Mauthausen, da cui passò a Gusen, e l'8 dicembre dello stesso anno a Dachau. Nel febbraio 1945 scoppiò nel campo un'epidemia di tifo e gli ammalati furono isolati in baracche. Giuseppe sapeva che offrirsi di prendersi cura di loro significava esporsi alla morte, ma per la loro carità si offrì. Durò solo dieci giorni, dopodiché si ammalò gravemente e consumò così il suo martirio. Papa Giovanni Paolo II lo ha beatificato come martire il 13 giugno 1999. MARTIROLOGIO ROMANO. Nel campo di prigionia di Dachau vicino a Monaco di Baviera in Germania, beato Giuseppe Zaplata, religioso della Congregazione del Sacratissimo Cuore di Gesù e martire, che, tradotto per la sua fede con violenza dalla Polonia, sua patria, ad una crudele carcerazione, colpito da malattia portò a compimento il suo martirio.
nome Beato Bonifacio di Losanna- titolo Vescovo- nome di battesimo Bonifacio Clutinc- nascita 1180 circa, Bruxelles- morte 1260 circa, La Chambre- ricorrenza 19 febbraio- Beatificazione 1603- Canonizzazione 1702- Santuario principale Chiesa di Notre-Dame-la Chapelle (Bruxelles)- Attributi bastone pastorale- Nato a Bruxelles, Bonifacio si trasferì all'età di diciassette anni a Parigi per frequentare l'università, dove rimase come insegnante per sette anni dopo aver completato gli studi. Fu coinvolto nelle sommosse studentesche del 1229-1230 (v. Giordano di Sassonia, 13 feb.), e i suoi studenti si rifiutarono di seguire le lezioni; lasciata dunque Parigi, si trasferì a Colonia dove gli fu affidato un incarico nella scuola della cattedrale. Due anni dopo veniva eletto vescovo di Losanna, ma la sua denuncia del lassismo del clero, con quella ruvidità appresa forse a Parigi, non lo rese molto popolare nella diocesi; un'offesa recata all'imperatore Federico II, gli costò anche una brutta aggressione. Recatosi a Roma chiese quindi al para di essere sollevato da un incarico per il quale si sentiva inadeguato: il papa accolse la richiesta e l3onitacio si ritiro a n una., dove fu invitato a fermarsi nel monastero cistercense di La Cambre. Indossò l'abito cistercense pur non pronunciando i voti nell'ordine, e probabilmente operò come vescovo senza sede fissa, dal momento che nei diciotto anni o più in cui visse a La Cambre adempì a funzioni episcopali come la consacrazione di chiese e cdi dilati. Le sue reliquie sono conservate nella chiesa di Notre-Dame-la-Chapelle in Bruxelles. Fu canonizzato nel 1702. MARTIROLOGIO ROMANO. A La Chambre nei pressi di Bruxelles nel Brabante, nell’odierno Belgio, deposizione del beato Bonifacio, già vescovo di Losanna, che condusse vita ascetica tra i monaci cistercensi del luogo.