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I santi di oggi 13 luglio:
nome Sant'Enrico II- titolo Imperatore- nascita 6 maggio 972, Bad Abbach o Hildesheim, Germania- morte 13 luglio 1024, Grona, Germania- ricorrenza 13 luglio, 15 luglio messa tridentina- Canonizzazione 4 marzo 1146 da papa Eugenio III- Attributi corona, globo e scettro- S. Enrico nacque nel 972 da Enrico, re di Baviera e da Gisela, figlia di Corrado re di Borgogna. Ebbe ottima indole, nobili sentimenti e rara virtù: qualità che fecero di lui un imperatore santo. Incoronato da Benedetto VIII il 22 febbraio del 1014, Enrico comprese quanto gli fosse necessaria la umiltà per non prevaricare; e la cercò e l'esercitò quindi in tutti i suoi atti. Era solito dire che Iddio voleva due cose da lui: la santificazione propria ed il benessere dei sudditi: programma che il glorioso monarca svolse lodevolmente in tutta la sua vita. Unitosi in matrimonio con S. Cunegonda, conservò nella vita coniugale la perfetta castità, tanto da poter dire, in fin di vita, ai genitori di lei: Io ve la rendo illibata come me la deste. S. Enrico per difendere la giustizia conculcata, ebbe anche a sostenere molte guerre, con le quali rese il suo nome sempre più temuto e rispettato. In esse riusciva sempre vittorioso: ma il santo re prima di attaccar battaglia pregava e faceva pregare i soldati. In questo modo potè scacciare dall'Italia i Greci che, alleati dei Turchi, minacciavano la stessa Roma. Eresse a sue spese molte cattedrali, fra cui quella di Bamberga, dedicata ai Ss. Pietro e Paolo, che fu consacrata dallo stesso Pontefice di Roma; restaurò molte chiese danneggiate dagli eretici, eresse sedi vescovili, fondò orfanotrofi. Il suo zelo si spinse tanto avanti da riuscire a convertire Stefano, re di Boemia, il quale a sua volta portò tutta quella nazione alla vera religione. In mezzo alle terrene grandezze, S. Enrico sentiva di non essere pienamente soddisfatto, perché bramava di servire unicamente a Dio. Per questo, essendo amico del beato Riccardo, abate di Verdun, fece istanze presso di lui per poter entrare nel suo monastero. Ma l'abate, vedendo il bene che il santo re faceva ai popoli, non glielo permise: e S. Enrico inchinò riverente il capo all'ubbidienza e tornò alla reggia. Anche nelle infermità S. Enrico benediceva Dio: così sopportò con esemplare rassegnazione la contrazione di una coscia che lo rese zoppo per tutta la vita. Circondato dai grandi dell'impero e da molti vescovi, santamente spirò in Grône il 13 luglio del 1024. Il suo corpo venne sepolto nella chiesa di Bamberga ed egli fu canonizzato da Eugenio III nel 1145. PRATICA. Impariamo da questo Santo a non lasciarci assorbire completamente dagli affari terreni, ma solleviamo spesso nostro pensiero al cielo, perché il Paradiso sarà la nostra vera patria. PREGHIERA. O Dio, che quest'oggi trasferisti il tuo beato confessore Enrico dal fastigio del terreno impero al regno eterno, ti supplichiamo umilmente che come tu, prevenendolo colla tua grazia, gli facesti superare le lusinghe del secolo, così faccia che noi resistiamo, a sua imitazione, alle attrattive del mondo e giungiamo a te con cuore puro. MARTIROLOGIO ROMANO. Sant’Enrico, che imperatore dei Romani, si adoperò insieme alla moglie santa Cunegonda per rinnovare la vita della Chiesa e propagare la fede di Cristo in tutta l’Europa; mosso da zelo missionario, istituì molte sedi episcopali e fondò monasteri. A Grona vicino a Göttingen in Germania lasciò in questo giorno la vita.
nome Santa Clelia Barbieri- titolo Vergine- nome di battesimo Clelia Barbieri- nascita 13 febbraio 1847, San Giovanni in Persiceto, Bologna- morte 13 luglio 1870, San Giovanni in Persiceto, Bologna- ricorrenza 13 luglio- Beatificazione 27 ottobre 1968 da papa Paolo VI- Canonizzazione 9 aprile 1989 da papa Giovanni Paolo II- Clelia Barbieri nacque il 13 febbraio 1847 a Le Budrie di San Giovanni in Persiceto, piccolo centro della provincia di Bologna, da Giuseppe e Giacinta Nannetti, umili contadini, da adolescente divenne parte attiva dei catechisti del tempo chiamati Operai della Dottrina cristiana. Il primo maggio 1868 si unì con alcune compagne nella cosiddetta casa del maestro, con il programma di fare delle riunioni periodiche per «vivere una vita raccolta e fare del bene», inserendosi a tutti gli effetti nella vita parrocchiale. Il gruppo fu molto solerte nell'insegnamento del catechismo ai giovani e nelle opere assistenziali ai poveri ed agli ammalati e ben presto la giovane Clelia ne assunse il ruolo di guida, tanto che sovente veniva chiamata "Madre". Lo scopritore delle virtù della giovane fu il cardinale Giorgio Gusmini, arcivescovo di Bologna dal 1914 al 1921, che fece uscire, nel 1917, l'opuscolo Appunti su Clelia che molta parte ebbe poi nel processo di canonizzazione. Morì all'età di soli 23 anni, il 13 luglio 1870, pronunciando le sue ultime parole: «Me ne vado in paradiso e tutte le sorelle che moriranno nella nostra famiglia avranno la vita eterna...» e anticipando così la fondazione della Congregazione delle Suore Minime dell'Addolorata, avvenuta qualche anno dopo. Fu beatificata il 27 ottobre 1968 da papa Paolo VI ed innalzata agli onori degli altari da Giovanni Paolo II, divenendo santa della Chiesa cattolica il 9 aprile 1989. MARTIROLOGIO ROMANO. A Budrie in Romagna, santa Clelia Barbieri, vergine, che si adoperò per il bene spirituale della gioventù femminile e fondò la Congregazione delle Minime della Vergine Addolorata per la formazione umana e cristiana specialmente delle ragazze povere e bisognose.
nome San Sila- titolo Discepolo degli Apostoli- nascita I secolo- morte I secolo- ricorrenza 13 luglio- Sila è citato nel Nuovo Testamento, dove si parla di lui per la prima volta, in particolare negli Atti degli Apostoli, quando è scelto assieme a Giuda chiamato Barsabba «uomini tenuti in grande considerazione tra i fratelli» (At 15, 22) per portare una lettera degli apostoli e degli anziani radunati a Gerusalemme ai gentili di Antiochia, Siria e Cilicia, e per riferire «anch'essi queste stesse cose a voce» (At 15, 27). Al loro arrivo ad Antiochia, Giuda e Sila «essendo anch'essi profeti, parlarono molto per incoraggiare i fratelli e li fortificarono» (At 15, 32). Vi trascorsero un po' di tempo e poi ritornarono a Gerusalemme. Per S. Luca (18 ott.), autore degli Atti, Gerusalemme aveva una parte importante nel piano della salvezza: l'evangelizzazione doveva partire dalla Città Santa. In questo contesto l'impiego di Sila, un giudeo, per portare l'insegnamento degli apostoli al mondo dei gentili ad Antiochia, con buoni risultati, ben si adattava allo schema teologico generale di Luca, che lo ritrae come «un cristiano giudeo con una buona posizione nella direzione della Chiesa di Gerusalemme [...] un rappresentante approvato [...] aperto alla missione presso i gentili [...] ed efficace in una Chiesa di gentili» (Kaye). Successivamente, quando Paolo discusse con Barnaba, e portarono avanti missioni separate, Paolo scelse Sila come compagno in Siria e Cilicia (cfr. At 15, 40); entrambi furono imprigionati a Filippi, accusati di aver causato disordine in città, e flagellati, ma durante la notte furono liberati miracolosamente. È evidente da questa narrazione che Sila, come Paolo, era un cittadino romano (At 16, 19-40), pertanto avrebbe dovuto essere loro risparmiata la flagellazione. All'arrivo del gruppo a Berea ci furono altri problemi, e Paolo partì segretamente per Atene, con l'ordine per Sila e Timoteo di raggiungerlo al più presto (cfr. At 17, 10-15); poi si incontrarono di nuovo a Corinto (cfr. At 18, 4). Fu da Corinto che Paolo scrisse entrambe le sue lettere ai Tessalonicesi, in cui fa riferimento a Sila con il suo nome romano, Silvano (1 Ts 1, 1; 2 Ts 1, 1; e cfr. 2 Cor 1, 19). Il nome Sila potrebbe essere una forma familiare di Silvano, ma è più probabile che sia un nome giudeo distinto. Anche S. Pietro usa il nome romano quando scrive Silvano, «fratello fedele», (1 Pt 5, 12), anche se forse qui Pietro si rivolge a un'altra persona. Nel complesso, Sila fu uno dei primi importanti missionari cristiani, tenuto in gran considerazione da S. Pietro e da S. Paolo. Secondo la tradizione, Sila morì in Macedonia; alcune Chiese orientali lo festeggiano il 26 novembre o il 30 giugno, e affermano che fu vescovo di Corinto. Alcuni Padri hanno fatto distinzione tra Sila e Silvano, e sostengono che il primo era vescovo di Corinto e il secondo di Tessalonica. MARTIROLOGIO ROMANO. Commemorazione di san Sila, che, destinato dagli Apostoli alle Chiese dei gentili insieme ai santi Paolo e Barnaba, pervaso della grazia di Dio, svolse senza sosta il suo ministero.
nome Beato Giacomo da Varazze- titolo Arcivescovo di Genova- nome di battesimo Jacopo De Fazio- nascita 1226 circa, Varazze, Savona- Nominato arcivescovo 1292- morte 1298, Genova- ricorrenza 13 luglio- Beatificazione 1816, da papa Pio VII- Incarichi ricoperti Arcivescovo di Genova (1292-1298)- Giacomo nacque nel paese di Varagine (l'attuale Varazze) vicino a Genova nel 1230 circa, e all'età di quattordici anni si unì ai domenicani, diventando successivamente famoso in tutta la Lombardia come influente predicatore. Insegnò teologia e Scrittura in molte case dell'ordine, divenne priore a Genova, e nel 1267 provinciale per la Lombardia, incarico che svolse per diciannove anni. La sua fama fu tale che nel 1286 il capitolo della cattedrale di Genova lo scelse come vescovo, ma egli rifiutò l'incarico. Due anni dopo, papa Nicolò IV (1288-1292), gli affidò il compito di annullare l'interdetto e altre censure imposte alla città, poiché quest'ultima aveva sostenuto la rivolta siciliana contro Napoli, e nel 1292 fu di nuovo scelto come vescovo. Questa volta la sua riluttanza fu vinta, ed egli fu consacrato vescovo a Roma. I suoi sei anni a capo della sede furono in gran parte scevri di risultati, inoltre non riuscì a portare la pace tra il partito dei guelfi (favorevole al papa) e quello dei ghibellini (che sosteneva l'imperatore), le cui dispute dividevano la città. D'altro canto, fece donazioni a molti ospedali e monasteri e restaurò le chiese danneggiate o abbandonate durante le sommosse civili. Era generoso con i poveri e s'impegnò a correggere la disciplina del clero. Morì nel 1298, e il culto, nato subito dopo la morte, fu approvato nel 1816. La fama di Giacomo non poggia sui risultati conseguiti durante il suo alto ufficio, ma sul suo capolavoro letterario, la Legenda Sanctorum o, com'è meglio conosciuta, la Legenda aurea, cui talvolta si fa riferimento come Lombardica Historia, scritta da Giacomo tra il 1255 e il 1266, che comprende per la maggior parte le vite dei santi, con brevi brani sulle festività principali dell'anno liturgico della Chiesa. Questa «narrativa coinvolgente, piena di aneddoti e di etimologie curiose» (O.D.C.C.) divenne la raccolta di vite di santi più popolare e più importante del Medio Evo (sono state conservate un migliaio di copie manoscritte del solo testo latino): Giacomo raggiunse il suo fine di scrivere un «libro che il popolo avrebbe letto e il cui messaggio d'amore per Dio e di odio per il peccato non poteva essere frainteso» (B.T.A.). Offrì sei ragioni per la venerazione dei santi, incluso l'onore che tale venerazione recava a Dio, poiché chiunque onori i santi onora colui che, in modo particolare, li ha fatti santi. Inoltre aggiunse: «I loro corpi, essendo stati templi dello Spirito Santo, erano fonte di potere, urna di alabastro dell'ornamento spirituale da cui sgorga il potere di guarigione» (Duffy). L'avvento della stampa incrementò la diffusione del libro: la prima edizione stampata della versione latina comparve a Basilea nel 1470, seguita da versioni in tedesco, italiano, francese e cecoslovacco nei successivi dieci anni; la prima traduzione inglese fu stampata da Caxton nel 1483, e vi furono edizioni successive che includevano altri santi. Nessun altro libro fu ristampato più spesso tra il 1470 e il 1530, anno in cui era stato pubblicato più di un centinaio di versioni differenti, giustificando l'affermazione che fu sicuramente il primo best-seller stampato. I suoi fini, tuttavia, non erano così diretti come implicherebbero i riferimenti sopra citati. Il libro non era destinato ai laici, ma avrebbe dovuto essere usato dal clero come fonte per le omelie, e Giacomo lo scrisse traendo spunto dalle precedenti raccolte; da questo punto di vista, vi è ben poco di originale, anche se, a ogni modo, non prese semplicemente in prestito del materiale, ma lo modificò e semplificò secondo un criterio molto selettivo, per conferire importanza a una visione particolare della vita spirituale, in sintonia con un più esteso cambiamento d'atteggiamenti in atto nella Chiesa, dimostrato dalle canonizzazioni dopo il 1270 circa. Aumentarono le canonizzazioni dei monaci, segno dell'allontanamento dal concetto che vivere nel mondo e svolgere un apostolato di carità attivo fossero unici segni di santità, e si conferì una maggior importanza all'erudizione, alla contemplazione, alla mistica, e al sovrannaturale. Una delle loro caratteristiche più comuni è quella di essere "santi dalla nascita", meno "ordinari", con il risultato interessante che vi furono meno penitenti. Papa Innocenzo IV (1243-1254) aveva dichiarato che per la canonizzazione un individuo doveva aver condotto necessariamente una vita virtuosa continua e ininterrotta. La Legenda aurea non era la migliore raccolta medievale delle vite dei santi, e non è facile capire perché divenne la più usata e diffusa, ma sembra che i predicatori la trovassero «eccezionalmente utile» nel XIV e XV secolo (Reames), forse perché il clero regolare era considerato superiore ai laici (e, naturalmente, al clero secolare) e scelse solo quelle parti che si adattavano al nuovo pensiero. L'opera non era storica, né critica e fu criticata aspramente da umanisti e riformatori successivi, per la credulità che incoraggiava nelle menti dei fedeli (secondo loro rappresentava molti elementi errati nella religione medievale). La sua popolarità diminuì nel XVI secolo, a causa degli attacchi dei protestanti (il vescovo Jewell la usò come prova della sua accusa che i sacerdoti cattolici predicavano «bugie e favole appassionate»), ma alcuni studiosi cattolici del XV e XVI secolo avevano già adottato un approccio critico e volevano sbarazzarsi delle componenti ovviamente superstiziose: Niccolò Cusano, per esempio, nel 1455 proibì al suo clero di insegnare tali aspetti contenuti nella Legenda aurea dei SS. Biagio, Barbara, Caterina, Dorotea e Margherita di Antiochia, poiché contenevano la promessa che gli atti di devozione ai santi in questione avrebbero magicamente garantito la liberazione dalla sofferenza, come la malattia, la povertà, e persino la dannazione (Reames). Non sorprende che alcuni popoli nel successivo Medio Evo, quando la sua fama era al massimo livello, preferirono la più sobria Imitazione di Cristo. La domanda più importante, che questi primi critici cattolici si posero, era se un'opera particolare potesse essere edificante per i suoi lettori, non se era storicamente vera nel nostro senso moderno. Sono stati fatti alcuni tentativi moderni di riabilitare la Legenda aurea, in base a una linea simile; è stata difesa persino dallo studioso bollandista Delehaye, che ha affermato che si trattava di un'opera di devozione, perciò da non giudicare secondo le norme della critica storica: «La leggenda, come tutta la poesia, può contenere maggiore verità della storia». Ammise che spesso gli faceva nascere un sorriso sulle labbra «ma un sorriso condiscendente e amichevole, che non altera affatto il riscontro religioso suscitato dalla descrizione della bontà e degli atti eroici dei santi» (citato in Reames). Senza negare i meriti letterari e le pie intenzioni del suo autore, a ogni modo, ci si può chiedere quanto sia saggio permettere che le testimonianze sulla "devozione" giustifichino il fatto di rappresentare come verità ciò che è chiaramente incredibile e persino ridicolo. Giacomo scrisse anche un certo numero di altre opere, tra cui: il Chronicon Genuense, una storia di Genova fino al 1296 e ancora pregiata per i suoi dettagli locali; un insieme di omelie per l'anno liturgico della Chiesa; un Defensorium contra Impugnantes Fratres Praedicatores (una difesa contro coloro che attaccano i domenicani), e una Summa Virtutum et Vitiorum Guillelmi Peraldi (una summa delle virtù e dei vizi nell'insegnamento di Guglielmo Peraldi, un domenicano morto nel 1250 circa). Scrisse anche una serie di omelie sulla Madonna, disposte secondo i suoi titoli e attributi; gli si attribuirono alcune traduzioni della Bibbia in italiano, ma è sorprendente che, nel caso l'abbia veramente fatto, non ci sia pervenuta nessuna copia. MARTIROLOGIO ROMANO. A Genova, beato Giacomo da Varazze, vescovo, dell’Ordine dei Predicatori, che per promuovere la vita cristiana nel popolo presentò nei suoi scritti esempi numerosi di virtù.
nome Sant'Eugenio di Cartagine- titolo Vescovo- nascita V secolo, Africa- morte 505, Albi, Francia- ricorrenza 13 luglio- Eugenio, forse d'origine orientale, divenne vescovo di Cartagine nel 481, sede vacante da ventiquattro anni a causa della severa persecuzione dei cattolici in Africa settentrionale, da parte dei vandali ariani, iniziata dal loro re, Genserico, che morì nel 481 e il cui successore, Unnerico, concesse ai cattolici una libertà limitata, permettendo loro di riaprire le loro chiese ed eleggere nuovi vescovi. Eugenio si dedicò alla riorganizzazione della Chiesa di Cartagine e presto divenne famoso per la carità e l'efficacia della sua predicazione. Quando gli venne consigliato di spendere parte del denaro per le sue necessità invece di donare tutto ai poveri, replicò: «Se il buon pastore deve rinunciare alla sua vita per il suo gregge, potrei essere giustificato se mi preoccupassi delle necessità transitorie del mio corpo?». Il suo successo, comunque, fece sì che il re lo notasse, e gli fu ordinato di non predicare in pubblico, di non svolgere i suoi doveri episcopali, e di non ammettere i vandali nelle chiese cattoliche di tutte le sue diocesi. Fu l'inizio di un'altra ondata di persecuzioni; Unnerico ordinò ai vescovi cattolici di incontrare i loro oppositori ariani a Cartagine nel 484, con l'idea di convertirli all'arianesimo. In seguito al fallimento di questo tentativo, i vescovi redassero un Liber fidei catholicae per provare la loro ortodossia, ed ebbero quattro mesi di tempo per apostatare. Coloro che rifiutarono furono esiliati, e i laici cattolici furono esclusi dalla vita pubblica e dagli affari, a meno che non esibissero un documento che attestasse l'adesione all'arianesimo. Eugenio scrisse al suo popolo dall'esilio nel deserto tunisino: «Se ritorno a Cartagine vi vedrò in questa vita; se no, nell'altra. Pregate per noi, e digiunate; il digiuno e la carità non hanno mai mancato di suscitare la pietà di Dio». Inoltre li mise in guardia contro il fatto d'accettare un nuovo battesimo da parte del clero ariano: «Conservate la grazia del battesimo e l'unzione del crisma. Fate che nessuno rinato dall'acqua ritorni all'acqua». La persecuzione continuò dopo la morte di Unnerico più tardi nel 484, ma cominciò ad allentarsi nel 487 circa, quando fu permesso a Eugenio di tornare a Cartagine. Le chiese furono gradualmente riaperte e fu concesso al clero di svolgere il suo ministero pubblicamente. La pace fu breve, tuttavia, e quando Trasamondo divenne re nel 497, le persecuzioni ricominciarono. Eugenio fu condannato a morte, ma la sentenza non fu eseguita; al contrario, si recò in esilio nella Francia meridionale, dove morì in un monastero vicino ad Albi nel 505. I libri liturgici di Albi fissano la sua festa al 6 settembre, giorno probabile della sua morte. MARTIROLOGIO ROMANO. Ad Albi in Aquitania, in Francia, transito di sant’Eugenio, vescovo di Cartagine, che, insigne per fede e virtù, fu mandato in esilio durante la persecuzione dei Vandali.
nome Beato Tommaso Tunstal- titolo Martire- nome di battesimo Tommaso Tunstal- nascita Inghilterra- morte Norwich, Inghilterra- ricorrenza 13 luglio- Tommaso Tunstal nacque a Whinfell, vicino a Kendal, entrò al Collegio inglese di Douai nel 1606 con lo pseudonimo di Helmes, fu ordinato sacerdote, e inviato in missione in Inghilterra nel 1610, con un soprannome diverso, Dyer. Fu arrestato quasi immediatamente e trascorse il resto della vita in varie prigioni, tra cui il castello di Wisbech, da cui riuscì a scappare, rifugiandosi poi a King's Lynn. Sfortunatamente, poiché si era ferito le mani nella fuga, dovette cercare qualcuno che lo medicasse; fu però denunciato al magistrato del luogo, e arrestato una seconda volta. Imprigionato a Norwich, fu portato davanti alla corte, dove un falso testimone forni la prova che Tommaso aveva riconvertito due protestanti al cattolicesimo e aveva tentato di fare altrettanto con lui; quando i due protestanti furono convocati per confermare questa testimonianza, affermarono che erano ancora protestanti e che Tommaso li aveva solo incoraggiati a condurre una vita più santa. Il giudice offrì allora a Tommaso l'opportunità di pronunciare il giuramento di supremazia, ma al rifiuto di quest'ultimo, lo condannò a essere impiccato, sventrato e squartato. Sul patibolo gli fu chiesto di rivelare la sua identità di gesuita, ma egli dichiarò di essere un sacerdote regolare che aveva pronunciato il voto per entrare nell'ordine benedettino, perciò chiese allo sceriffo che la sua testa fosse esposta sulla porta della città intitolata a S. Benedetto. Prima di morire, Tommaso chiese che ora era, e quando gli risposero che erano le undici, disse: «Allora è quasi ora di cena. Gesù caro, concedimi, sebbene io non lo meriti molto, di essere ospite oggi alla tua mensa nei cieli». Gli fu concesso di morire impiccato evitando di essere sventrato e squartato vivo, e la sua testa fu esposta sul cancello di S. Benedetto, secondo la sua richiesta. La data esatta della sua esecuzione è incerta; Tommaso è stato beatificato nel 1929. MARTIROLOGIO ROMANO. A Norwich in Inghilterra, beato Tommaso Tunstal, sacerdote dell’Ordine di San Benedetto e martire, che, condannato sotto il re Giacomo I per essere entrato in Inghilterra da sacerdote, morì sospeso al patibolo.